Il Governo della Corea del Sud ha deciso di puntare tutto sulla prevenzione per tentare di venire a capo di un fenomeno che da tempo miete molte vittime tra i giovani coreani. Il problema dei suicidi degli adolescenti, infatti, non accenna a regredire, anzi. Secondo la Korea Foundation for Suicide Prevention, da gennaio a giugno 2023, quasi 7.000 persone in Corea del Sud si sono tolte la vita, segnando un aumento dell’8,8% rispetto all’anno precedente. Ce ne parla in questi giorni il quotidiano L’Avvenire, con un articolo che evoca il ruolo strategico che avrà la Scuola nella lotta contro il suicidio tra i giovani.
Il programma di formazione proposto alle scuole – e che verrà esteso anche ai dipendenti delle istituzioni pubbliche – è diviso in due segmenti. La prima parte del programma educativo è finalizzata “a educare i ragazzi sulla natura del suicidio, compresi i fattori che contribuiscono al declino della salute mentale e le strategie per superare le condizioni di criticità”. La seconda, invece, “fornisce una guida pratica sul sostegno da offrire alle persone esposte a un alto rischio, spiegando come riconoscere i segnali di allarme e come predisporre strategie di risposta efficaci”. Intervistato dal quotidiano The Korea Times, un alto funzionario del dipartimento della salute auspica che la cultura del rispetto della vita si diffonda ulteriormente attraverso il programma di prevenzione e che i suggerimenti pratici su come cercare aiuto e su come fornire aiuto a coloro che sono ad alto rischio contribuiscano a rafforzare la rete di sicurezza salvavita nella società. L’obiettivo dichiarato dal governo di Seul è ridurre il tasso di suicidio da 25,2 ogni 100.000 persone alla media Ocse di 10,6 entro i prossimi 10 anni.
Ma perché così tanti giovani, in Corea del Sud, decidono di togliersi la vita in un’età in cui, al contrario, la speranza, la costruzione del proprio futuro, la gioia di vivere dovrebbero essere gli ingredienti principali dell’esistenza?
Intervistato da Avvenire, Donald L. Baker, professore di Civiltà coreana all’University of British Columbia, ha spiegato che la Corea del Sud è una società incredibilmente competitiva, nella quale la lotta per la conquista dello status sociale può essere spietata. Una enorme pressione viene così esercitata sui giovani, da subito fagocitati da un sistema scolastico estremamente selettivo. Non solo: come spiega ancora Baker, c’è una componente piscologica estremamente dannosa in una società dell’onore come è quella sudcoreana: “La sensazione che i miei successi così come i miei fallimenti, non riguardino solo me, ma si riflettano sui membri della mia famiglia. Se non riesci ad avere un matrimonio di successo e/o una carriera di successo, senti di aver fallito non solo verso te stesso ma anche verso la tua famiglia. Ciò crea un tale senso di vergogna che alcune persone arrivano a uccidersi”.
Come ha scritto recentemente su The Guardian il giornalista freelance Raphael Rashid, attualmente residente nel paese asiatico, “La Corea del Sud è un Paese profondamente infelice, nonostante la sua immagine esteriore di perfezione. La cultura sudcoreana pone un forte accento sia sul conformismo che sulla competizione, una contraddizione che può generare stress, isolamento, emozioni represse e una insoddisfazione profonda”.
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