I lettori ci scrivono

L’ottimismo come virtù sociale

Mai come in questo momento si è compreso che essere ottimisti o pessimisti non è una condizione statica. L’ottimismo, in particolare, non un destino, una fatalità. L’atteggiamento mentale positivo è, infatti, la condizione ottimale della salute mentale, dell’interazione sociale, della fecondità e progettualità esistenziale. Essere ottimisti, specie nell’emergenza in cui ci troviamo, si presenta come una necessità, un impegno, un dovere.

Pare che l’atteggiamento di fiducia o sfiducia verso la realtà sia, in qualche misura, condizionato dai messaggi ricevuti nella prima infanzia. Questa, almeno, è la celebre teoria di Erik Erickson il quale ha coniato l’espressione di “fiducia di base”. Supponiamo, allora, che un bambino, fin dai primi mesi di vita, riscuota segnali continui di attenzione ed affetto, tali da indurlo a credere di rappresentare, per gli altri, un valore importante … Ed ipotizziamo che, in seguito, tali segnali vengano rinforzati da altri messaggi positivi, in modo che il soggetto sia indotto a concepire la realtà come qualcosa di positivo. Ecco venir fuori una persona che, per generalizzazione, pensa bene di tutto: di se stesso, degli altri, della realtà sociale e cosmica. Certamente, se l’atteggiamento di chi ci introduce nel mondo risulta equivoco, ambivalente, oppure se riceviamo segnali di disinteresse ed ostilità, ne deriva che la nostra personalità rischia di essere modellata diversamente.

È così. L’uomo si struttura in base al patrimonio psico-fisico ed in base all’ambiente della prima socializzazione. Ma anche a motivo di una irripetibile storia biografica e di determinate scelte dell’arco di vita. In ogni caso, ad un certo punto della nostra evoluzione, ci troviamo addosso un temperamento strutturato secondo un certo campionario: l’ottimista ingenuo, che possiede una fiducia acritica ed incrollabile sulla realtà; l’ottimista razionale, capace di ammettere il negativo, ma anche di risolverlo in una totalità positiva; il pessimista vittimista che continuamente si lamenta e subisce; ed infine, il pessimista aggressivo, sempre pronto a contestare, opporsi e rivendicare …

È evidente, allora, che una determinata socializzazione possa condizionare il nostro modo di rappresentare la realtà. Solo per fermarci alla storia del pensiero, è facile individuare qualcuno che, animato da un ottimismo ontologico radicale, sentenzia: “Tutto ciò che esiste, per il fatto stesso che esiste, è buono” (Tommaso d’Aquino). O chi, sempre sorretto dallo stesso ottimismo, ritiene: “Il negativo è insieme positivo”. Ed ancora, sul versante politico: “L’essenza dello Stato è la vitalità morale” (Friedrich Hegel). Oppure, ecco l’ottimista politico che scrive: “Il fine della legge non è di precludere o reprimere la libertà ma di conservarla ed ampliarla” (John Locke). O, l’ottimista sociale che precisa: “I singoli tutelano ed accrescono sé stessi nella misura in cui tutelano ed accrescono l’intero organismo” (Emile Durkheim). Ed, invece, ecco chi, al contrario, travolto dal più cupo pessimismo, annota: “Il carattere complessivo del mondo è il caos” (Friedrich Nietzsche). Così, come esiste il pessimista politico che scrive: “Non è la sapienza ma l’autorità che crea la legge” (Thomas Hobbes). O il pessimista sociale che sostiene: “La storia di ogni società, esistita fino a questo momento, è storia di lotta di classe” (Karl Marx). Sappiamo, invece, che esistono concezioni sistemiche che concepiscono la società come una struttura unitaria che armonizza gli opposti, ripristinando l’equilibrio sociale ogni volta che esso si altera. Oppure, c’è il pessimista psicologico per il quale “La conflittualità è la situazione normale della psiche” (Sigmund Freud).

Alcune considerazioni. È evidente che il temperamento maggiormente funzionale al benessere individuale e sociale, è quello dell’ottimista razionale. Tuttavia, il discorso che abbiamo fatto è solo indicativo e didascalico, finalizzato alla costruzione di paradigmi di riferimento. È fuori dubbio che il condizionamento che riceviamo dal nostro ambiente di origine non è deterministico. Esso, infatti, interagisce dinamicamente con la libertà individuale, con i nostri valori, con le determinazioni etiche di tutto un arco di vita. Inoltre, il condizionamento può agire anche alla rovescia. Proprio perché abbiamo figure genitoriali indifferenti o anaffettive, possiamo essere indotti a definirci in modo empatico. A realizzare una visione diversa del reale, con la costruzione di schemi positivi.

Paradossalmente, anche se la nostra visione ottimistica del mondo è solo il frutto di una rappresentazione soggettiva e gratuita, piuttosto che la conseguenza di fondamenti filosofici o religiosi, conviene comunque essere ottimisti. Ed appartenere, così, a quella categoria di persone che, un giorno, hanno deciso di essere felici.

Luciano Verdone

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