A partire dal mese di marzo di quest’anno, per l’emergenza causata dalla pandemia, i docenti hanno dovuto condurre, forzatamente, un tentativo di insegnamento fatto a distanza, con mezzi tecnici/informatici e non in presenza a scuola. Dopo qualche mese vorrei provare a tracciare un primo bilancio di un’esperienza così radicale, che ha costretto a snaturare completamente l’abituale lavoro del docente. Nel formulare tali valutazioni bisogna cercare di mantenere un approccio scientifico, tentando di evitare preconcetti e posizioni manichee.
In base a questa esperienza (giustificabile solo da una così grave emergenza) mi sono convinto che la didattica a distanza svilisce l’atto generativo dell’insegnamento e costituisce il passo definitivo verso la distruzione della scuola così come fu disegnata dai nostri padri costituenti.
Parto col dire che sarebbe stupido nutrire pregiudizi verso l’ingresso nella scuola dei mezzi offerti dalla tecnica. Essi rappresentano opportunità preziosissime che devono essere sfruttate per potenziare il processo didattico. Tuttavia sottolineo che tali mezzi sono strumento e non fine della formazione dei nostri ragazzi.
Tralascio qui le questioni sull’oggettività delle verifiche, sulla difficoltà a controllare l’acquisizione individuale degli obiettivi didattici, sull’invasione della vita privata, sulla disparità di trattamento tra classi sociali. Ritengo talmente scontati tali aspetti da non doverne discutere ulteriormente.
Vorrei, piuttosto, chiedere: che cosa si può ritenere che venga perso, e cosa venga guadagnato, con un insegnamento non in presenza? Che cosa accade quando si pone una distanza elettronica tra docenti e studenti? Cosa cambia quando il luogo reale diventa lo “schermo”?
La separazione tra presenza e assenza di un maestro, nell’ambito della formazione è, in realtà, una questione molto antica, che trae origine già dalla diffusione della scrittura alfabetica e della pratica della lettura. Platone, nel Fedro, rivolgendosi all’inventore dell’alfabeto, scriveva: “Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti”.
Nonostante le obiezioni di Platone, il libro divenne col tempo un alleato potente della pratica dell’insegnamento orale, uno strumento indispensabile e prezioso. La sua logica e la sua pratica non hanno mai smesso di esercitare un’influenza profonda sul modo di concepire e di condurre la trasmissione del sapere e il processo formativo.
Con il libro, dunque, si è guadagnata la possibilità di diffondere, conservare e catalogare nozioni, conoscenze e competenze. Tuttavia il libro si è solo affiancato e non ha mai sostituito interamente la lezione diretta del docente.
L’epigono ultratecnologico del libro, il computer, connesso al gigantesco apparato labirintico della rete, è dotato di una potenza molto maggiore. La sua innegabile utilità servirà sicuramente all’insegnamento. Il messaggio elettronico riprende e rilancia, con mezzi potentissimi, integrati e interattivi, le analoghe virtù che sin dall’inizio erano della scrittura e della stampa dei libri. Ma, come il libro, il computer non deve ritenersi un sostituto dell’insegnamento in presenza, deve, piuttosto, essere strumento per l’educazione critica dei ragazzi.
Cosa, dunque, si può ritenere che venga perso con la didattica a distanza?
A guardar bene, la maggior perdita non sta nemmeno nell’assenza fisica del professore, la cui figura e la cui voce possono essere riprodotte su di uno schermo. La differenza vera, che i mezzi di comunicazione a distanza non possono colmare, è il fatto che un gruppo di esseri umani si trova insieme ad abitare uno spazio comune, un luogo. Quel luogo non è infinito, e non è riducibile ad altri luoghi. E’ qui ed ora, irripetibile, ma tuttavia eterno. Un luogo destinato allo scambio di parole, che produce un passaggio di conoscenze, di esperienze, di saperi. In questo luogo saranno bene accetti tutti gli strumenti tecnologici più sofisticati. Ma il punto fondamentale è l’esperienza dello stare insieme, l’esperienza relazionale. C’è la vita con le sue proprie modalità, soggettive e intersoggettive, con le sue proprie figure, con le sue proprie declinazioni: appassionate, imitative curative, affettive. In gara fra di loro. Naturalmente non tutte positive, da regolamentare, da affrontare, da rendere legge comune, luogo comune, regola comune. Non c’è formazione se non c’è, innanzitutto, la capacità di stare fisicamente insieme, costituendo una comunità libera e rispettosa della legge che si è data.
Questo è quello che lo strumento a distanza non può dare.
Come in una orchestra bisogna imparare come suona la melodia, come procede, come si fa, come si sviluppa. E poi cosa dicono le parole, come si entra a tempo debito, come si collabora, come si accompagnano gli altri, come si fa il proprio a solo, con rispetto e coraggio, con accortezza e riguardo.
Il processo formativo è dunque questa presenza comune, questo stare insieme in questa stanza, a fare qualcosa insieme, questo patto tacito comune. Un patto che non ha bisogno di firme, che nasce dall’uso, dalla pratica, nasce dal fatto che insieme lo stiamo facendo. Tale patto tacito è istitutivo del processo formativo e per stabilirsi necessita della presenza di tutti.
Questa presenza comune suggerisce e ispira uno stile comportamentale idoneo, un rispetto reciproco, una consapevolezza dei ruoli che ognuno è chiamato a svolgere, per l’efficacia e il buon esito del tutto. Questo luogo produce un uso funzionale dell’autorità, o meglio dell’autorevolezza, che viene rispettata perché, nella pratica, essa svolge una funzione inimitabile e insostituibile. C’è, dunque, una libertà regolata, che è sempre una libertà gerarchica, giustamente e sanamente gerarchica.
In breve la presenza fisica disegna una comunità fondamentalmente politica. E’ tale politica che guida la formazione collettiva, che si inserisce in essa entro uno spazio vitale. E’ tale politica che decide e condivide, razionalmente, i tempi e i modi dei suoi percorsi, le sue modalità di esercizio, le sue modalità di valutazione e di prova. Ed è quella comunità politica che si dà una sua burocrazia, strumentazione tecnica del lavoro che dice, a chi partecipa alla comunità, come si deve fare. Tale burocrazia tecnico/amministrativa, però, dovrebbe stare a servizio della formazione, non condizionarne o snaturarne la funzione.
La burocrazia tecnologica amministrativa da tempo ha invaso la scuola. Giorno per giorno ci accorgiamo come essa, di fatto, ha cancellato, in gran parte, il senso profondo della formazione e la libertà di insegnamento e di ricerca. Quando la macchina esige che si parli in un tempo prestabilito, che si stia entro un certo numero di righi, che formazione c’è? dov’è la libertà e l’originalità?
Nella trasmissione a distanza, certamente la logica delle macchine e dei poteri che le rendono disponibili la fa da padrona. La distanza, dunque, può generare solo competenza senza alcuna sapienza. Forse, a distanza, si possono acquisire molte competenze (e non è scontato), ma sicuramente non la sapienza a cui si riferiva Platone, che è un’altra cosa, perché essa è un fattore politico, una coscienza politica.
La didattica delle competenze attiene a una coscienza tecnica, capace di operare sul “decidibile”, sul misurabile, sul confrontabile. Essa è necessaria per costruire un ponte, per curare un morbo, per scegliere con intelligenza. Ma non è un fattore politico, non educa allo stare insieme. E qui (se non prima) si ferma la didattica a distanza.
La sapienza, invece, attiene a una coscienza politica, e si occupa dell’”indecidibile”, di ciò che richiede un ragionamento critico, etico, empatico. E’ quell’educazione che forma il cittadino, l’uomo e le sue capacità di donare, amare, stare insieme, prendersi cura, perseguire il giusto. Non può essere sottoposta alla verifica di misure oggettive e non può generarsi con la distanza. Per questo serve la scuola in presenza!
Eugenio Benvenuto
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