I lettori ci scrivono

Ma chi ha interesse a tenere i genitori fuori dalla scuola?

Siamo delusi per una promessa disattesa: “Tre presidenti di associazione di genitori sarebbero stati nominati nel Consiglio Superiore dell’Istruzione”. Il Ministro, in verità, aveva avuto il coraggio di mettere tale impegno pure per iscritto nella prima bozza di riforma di questo consiglio, ma il comma è stato stralciato nel percorso di approvazione del decreto.
La presenza dei genitori nel Consiglio più autorevole della scuola avrebbe corretto un grave deficit normativo, per cui milioni di cittadini – genitori non hanno voce in un consiglio che si pronuncia nelle scelte e formative riguardanti i loro figli. Eppure la Costituzione Italiana riconosce a loro, solo a loro, il diritto – dovere di “mantenere, istruire ed educare i figli”.
La rappresentanza dei genitori, accanto a quella delle altre rappresentanze sociali (sindacati, enti istituzionali e formativi vari), riconoscerebbe pubblicamente la rilevanza e il ruolo sociale della genitorialità, determinante nel generare il futuro della scuola e del Paese.
Purtroppo non basta che i genitori siano numerosi, quasi venti milioni, che si facciano carico comunque dei minori, che siano il ceto sociale più attivo in campo economico, educativo e sociale; i genitori rimangono irrilevanti quando si tratta di prendere delle decisioni nei vari settori della vita sociale. Non sono chiamati ai tavoli delle scelte, non hanno una propria rappresentanza riconosciuta ed ascoltata, con il risultato che, per lo più, le decisioni si fanno “come se la famiglia non esistesse”. La retromarcia ministeriale può trovare una spiegazione anche nell’ondata insistente di proteste e denigrazioni nei riguardi della proposta ministeriale da parte di sindacati, politici, esperti, intellettuali, influencer… Ovunque si è chiesto, invocato, preteso l’espulsione dei genitori dalla scuola. Si è arrivati persino ad invocare contro i genitori l’autorità della Stato a difesa della libertà di insegnamento dei docenti, dimenticando che la Costituzione garantisce in democrazia “la libertà di insegnamento” non solo agli insegnanti, ma anche ai genitori nei riguardi dei figli , come a tutti i cittadini italiani, titolari del diritto alla libertà di pensiero e di parola.

Espellere i genitori significa rinnegare cinquant’anni di democrazia scolastica, conquistata da sindacati, associazioni genitori (allora numerose in molte scuole) e società civile, perché gli insegnanti non fossero più i dipendenti dei dirigenti o “le vestali del Governo di turno”, ma professionisti in grado di definire un’offerta formativa (PTOF) di qualità da condividere con le famiglie e con le comunità locali.

Forse l’ostacolo maggiore che ha bloccato il processo democratico della scuola è stata la resistenza corporativa dei docenti nell’assumere le responsabilità, e non solo i vantaggi, dell’essere stati riconosciuti come professionisti, in grado di relazionarsi alla pari con i destinatari delle loro prestazioni. Si è rimasti nel mezzo del guado: molti docenti tendono a imporsi in veste di funzionari/dipendenti (?) dello Stato, così come molti genitori hanno continuato a delegare alla scuola le loro responsabilità educative, salvo, poi, in caso di contrasti ricorrere al TAR o protestare in modo esasperato.

Al contrario, ai docenti, come a tutti i professionisti in ogni ambito, spetta definire la loro offerta (PTOF), che sia in grado di riscuotere il consenso di studenti e genitori, in quanto destinatari delle loro prestazioni professionali. Purtroppo, in questi decenni si è andato rompendo il Patto educativo tra docenti e genitori, immaginato allora.

In ordine a questa dinamica relazionale tra professionista e committente, appare paradossale l’ingiunzione di molti intellettuali di ritenere ingiustificata la presenza dei genitori nelle scuole. Eppure, nella società aperta di oggi il successo di ogni professionista si afferma per il libero consenso dei lettori o per l’applauso convinto degli ascoltatori. Forse che la loro fama è garantita dall’obbligo per i lettori di comprare i libri o per gli ascoltatori di partecipare alle loro conferenze?

Sfugge loro che in Italia, a differenza degli altri Paesi democratici avanzati, i genitori non possono scegliere liberamente né le scuole né gli insegnanti. L’iscrizione è obbligatoria e se si sceglie una scuola paritaria si è sanzionato con rette che i poveri non possono pagare.

Ora, si può considerare ancora come professionista l’insegnante quando fosse deprivato del riscontro di un significativo consenso e di una positiva reputazione tra studenti e genitori obbligati ad ascoltarlo?

La scuola democratica, delineata negli anni ’70, valorizza il docente- professionista in dialogo costruttivo con studenti e genitori, sollecitati a partecipare nei momenti di consultazione, progettazione e verifica dei risultati. I genitori, in particolare gli eletti nei consigli scolastici o riuniti in associazioni, sono in grado di costruire collaborazioni con la scuola, le istituzioni e gli altri enti sociali. Le buone pratiche già in atto in molte scuole ci sono di incoraggiamento a proseguire con rinnovato impegno, perché quelle idealità non sono illusioni da abbandonare, ma progetto da realizzare con rinnovata e tenace determinazione.

Giuseppe Richiedei

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