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Ma la scuola deve educare a vivere o a lavorare?

Imperversa in questi giorni il dibattito sulla scuola che per vari aspetti non funziona. La supplentite in primo luogo. Ma anche il ruolo che deve avere nella società odierna.

La scuola di oggi prepara gli studenti a lavori che non faranno mai”, titola il Foglio. E qui sta il punto. La scuola deve educare a vivere o a lavorare? (vedi anche precedente notizia).

Oggi va di moda “l’imparare facendo”, la “laboratorialità”, formare alle “skill” che servono al lavoratore globalizzato e flessibile, come chiede da anni Confindustria, che ha sempre indicato queste priorità nei suoi programmi di Education, recepiti nella Buona Scuola di Renzi.

Sembra che il ruolo della scuola sia diventato questo, e che gli insegnanti debbano aggiornarsi per proporre questo modello.

 

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Il “vecchio Testo Unico 297/1994 (ancora vigente), così dettaglia la funzione docente:

La funzione docente è intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo alla elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalità”.

Oggi la “trasmissione del sapere” è considerata giurassica ed eretica. La nuova formazione destinata ai docenti mira a “sancire l’allontanamento da un modello di didattica prevalentemente trasmissiva”. Il docente deve “animare le situazioni di apprendimento” e “rendere lo studente protagonista e co-costruttore del suo sapere attraverso il procedere per compiti di realtà” (Piano formazione docenti 3/10/2016).

Come? Ecco il florilegio (parziale) del pensiero pedagogico attuale e politicamente corretto: project-based learning, cooperative learning, peer teaching e peer tutoring, mentoring, learning by doing, flipped classroom, information literacy. Lessico che già la dice lunga sui modelli educativi oggi imperanti. Nella madrelingua troviamo solo qualche modesta novità come “didattica attiva, pensiero computazionale, creatività digitale, robotica educativa, laboratorialità” e poco altro.

Proprio in questi giorni, come docente, ho selezionato per la mia classe un brano antologico del filosofo spagnolo Fernando Savater, che sarebbe stato certamente condiviso dal compianto Giorgio Israel, unica voce in Italia a sostenere il pensiero libero e la formazione critica, fino alla sua morte nel 2015.

Savater, in un articolo del 2002, spiega la sindrome dello IAP, l’idiota abbastanza preparato, quello che purtroppo la scuola ha cominciato a sfornare nei tempi attuali. Quello che ha dei saperi abbastanza adeguati al mondo globalizzato, ma è carente di interesse civico e delle capacità di esplicare le attribuzioni del cittadino.

Per i giovani che escono dalla scuola, “il problema non è quello che non sanno fare, ma quello che non sanno essere: uomini fra gli uomini, liberi ma responsabili”, conclude il filosofo spagnolo.

Ed è questo il modello educativo che ancora mi ostino a proporre ai miei studenti, come immagino altri docenti, alla faccia delle mode pedagogiche, del politicamente corretto e delle posizioni populiste di certi media che inseguono la pancia dell’opinione pubblica per fare audience.

 

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Anna Maria Bellesia

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