Il premier Renzi, nella conferenza stampa di fine anno, ha confermato che ci sono figli e figliastri, tra i lavoratori. Anzitutto tra quelli del settore pubblico e quelli del settore privato, poi tra quelli già garantiti dallo statuto del 1970 e quelli che rientrano nel Jobs Act (“a tutele crescenti”).
Figli e figliastri, dunque. Soprattutto, con regimi contrattuali che continuano a favorire i padri rispetto ai figli, i super garantiti rispetto a chi si dovrà accontentare della cosiddetta flessibilità.
Il tutto per dire che nessuna rivoluzione è davvero rivoluzionaria, se mettiamo a confronto le troppe dichiarazioni dello stesso Renzi degli ultimi due anni.
“Deciderà il Parlamento”, con il disegno di legge Madia, nonostante sia evidente a tutti che il Parlamento oggi non è più il centro decisionale del nostro Paese.
Mentre, dunque, il mondo del lavoro privato è oggi sospeso, a parte belle eccezioni, tra contratti di solidarietà, ristrutturazioni e mobilità, quello del lavoro pubblico deve scontare anni di disconoscimento, di mancanza di rinnovo contrattuale, con la conseguenza di alimentare sconforto e disconoscimento sociale, per via di un modello contrattuale egualitarista che favorisce un’idea di “mediocrità” del suo “servizio pubblico”, lo stesso che, nei fatti, mette sullo stesso piano la stragrande maggioranza di persone in gamba e coloro che si trovano a ricoprire un ruolo pubblico non per merito (con verifiche sul campo), non per un reale concorso (quante sanatorie ope legis?).
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Non solo. Se pensiamo al mondo della scuola, tutti sappiamo che vincere un concorso non può significare l’inamovibilità, perché un concorso è un lasciapassare ad una professione, ma una professionalità va garantita giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Cosa fanno, ad esempio, i presidi durante l’estate? Quando costruiscono le cattedre per i docenti partono dalle situazioni critiche, spalmando le situazioni difficili su più classi, chiedendo poi ai più bravi di sanare le situazioni complicate. Nessuno che, dunque, riesca a rispondere a questo vulnus!
Eppure un “servizio pubblico” dovrebbe partire non dalla struttura, ma, appunto, dal “servizio”, cioè dalla analisi, la più condivisa possibile, dei risultati: formare i giovani di oggi. Sapendo che un vero “maestro” è la migliore avventura che noi possiamo augurare ai nostri figli.
Dunque, se una buona politica dovrebbe partire da due punti-chiave (sapere la verità sul proprio Paese, e verifica sulla reale equità delle proposte secondo un’etica delle responsabilità), noi vediamo invece che si continuano a preferire le cortine di ferro ideologiche, contrattuali, comportamentali. E guai a metterle in discussione! Guai a parlare di “cultura dei risultati”, sapendo della problematicità dei processi. Non è l’Italia il Paese delle norme a pioggia, ma senza mai una verifica di merito?
Pari dignità, dunque, tra tutti i lavoratori e tutte le professioni. Sapendo che esiste sì il diritto al lavoro, ma non al posto di lavoro: questo uno se lo deve “meritare” non solo all’inizio, ma in itinere. Questa è la vera garanzia, in una “società aperta”, del “posto fisso”, tanto che, nel migliore dei casi, sono tante le aziende e le realtà professionali che, pur di garantirsi i migliori collaboratori, propongono loro “patti di non concorrenza”.
Pari dignità e cultura dei risultati, dunque. Che devono valere, nella scuola, non solo per i docenti, ma anzitutto per i presidi e per tutto il personale.
Sapendo che sotto contratto non sono le persone, ma le loro competenze, la loro disponibilità, la loro passione e dedizione. Gran parte del mondo della scuola ogni mattina risponde a questi valori aggiunti, ma nessuno, però, anche oggi sembra disposto a combattere per questi riconoscimenti. Si preferisce il finto egualitarismo, con la conseguenza che nessuno si straccia le vesti perché i docenti in gamba siano riconosciuti anche a livello stipendiale, non solo sociale.
Gianni Zen
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