L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n.17 del 28 dicembre 2022) è intervenuta sulla questione dei riposi parentali durante il primo anno di vita del bambino.
Si ricorderà che la legge 30 dicembre 1971, n. 1204 riconosceva alla lavoratrice madre una riduzione giornaliera dell’orario di lavoro al fine di accudire ed allattare il bambino.
La legge n. 903/1977, “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, all’articolo 7, ha poi attribuito al padre lavoratore il diritto di assentarsi dal lavoro in alternativa alla madre lavoratrice o quando i figli erano affidati solo a lui.
Si è progressivamente affermato il principio che anche il padre è idoneo (nonché tenuto) a prestare assistenza materiale e supporto affettivo al minore.
Se da un lato infatti la finalità dei riposi giornalieri non riguarda solo l’allattamento del neonato (Corte costituzionale – 14 gennaio 1987, n. 1), è comunque innegabile che è ormai superata la concezione di una rigida distinzione dei ruoli fra i genitori (Corte costituzionale, sentenza 2 aprile 1993, n. 179).
La normativa è stata poi rivista e coordinata a seguito dell’approvazione del Decreto Legislativo 26 Marzo 2001, n.151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità), che prevede rispettivamente all’articolo 39 (per la madre) e all’articolo 40 (per il padre), lavoratori dipendenti, il diritto alla fruizione di “riposi giornalieri” al fine di accudire il neonato nel corso del suo primo anno di vita.
Ovviamente, tali misure riguardano l’orario di lavoro e non la presenza giornaliera (in questo ultimo caso, si potrà ricorrere ai “congedi parentali”, come previsto dall’art.34 del decreto).
Come si è visto, la disciplina fa riferimento alla circostanza che i genitori siano lavoratori dipendenti.
Come considerare la casalinga?
Al quesito ha dato da tempo risposta positiva la Corte di Cassazione (n. 20324/2005), che ha assimilato il lavoro domestico all’attività lavorativa, richiamando i principi fissati dagli articoli 4, 36 e 37 della Costituzione.
C’è da dire, però, che l’art. 40 riconosce i permessi al padre lavoratore, nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente.
Sul punto, la giurisprudenza si è divisa.
Secondo un primo orientamento “positivo” (Cons. Stato, n. 4618/2014), tale espressione ricomprende tutte le ipotesi in cui non esiste un rapporto di lavoro dipendente; dunque sia il caso della lavoratrice autonoma, sia il caso della donna che non svolge alcun lavoro, nonché il caso della donna che svolge un’attività non retribuita (come appunto la casalinga).
C’è poi un secondo orientamento “negativo” (Cons. Stato, n. 2732/2009 e n. 1851/2021), secondo cui -atteso che la madre casalinga si dedica per definizione all’attività domestica- il suo lavoro non può non ricomprendere la cura del minore.
C’è infine un terzo orientamento “intermedio”, secondo il quale il padre ha diritto ai permessi solo se dimostra che la moglie casalinga è impossibilitata ad assicurare le necessarie cure al bambino (Cons. Stato, n. 4993/2017, n. 628/2018, n. 5686/2018; n. 6172/2021).
Nel ricordare che l’articolo 30 della Costituzione prevede il diritto/dovere di entrambi i genitori di “mantenere, istruire ed educare i figli”, il Supremo Organo della giustizia amministrativa ha osservato che la titolarità dei singoli diritti (compreso dunque quello al riposo) non può che essere riconosciuta allo stesso modo ad entrambi i genitori.
E’ stato così affermato che il diritto ai periodi di riposo per il padre lavoratore dipendente del minore di un anno, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, si riferisce a qualsiasi categoria di lavoratrici non dipendenti, e quindi anche alla donna che svolge attività lavorativa in ambito familiare, senza che sia necessario, a tal fine, che ella sia impegnata in attività che la distolgono dalla cura del neonato, ovvero sia affetta da infermità”.
Del resto, se il bambino viene allattato col biberon, perché non potrebbe pensarci il papà?
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