Avevo soltanto sette mesi di vita quando, il 23 maggio 1992, sull’autostrada A9, nella zona di Capaci, perdevano la vita il giudice Falcone, sua moglie e gli agenti Montinano, Schifani e Dicillo.
Non ricordo praticamente nulla, mi hanno soltanto raccontato lo sgomento dei più, il sospetto con cui si è guardato alle istituzioni, la fossa nel cemento, le macerie.
Qualche mese dopo, il 19 luglio, seguì la strage di Via D’Amelio e di mesi ne avevo nove.
Ero una bambina tranquilla, con gli occhi grandi, i capelli biondi e la totale inconsapevolezza di cosa avrebbero significato di lì in poi quei giorni nella memoria del mio paese e del mio popolo.
Ma la verità è che queste due date continuano a risuonare, di anno in anno, con prepotenza nell’etere mediatico. Si insinuano nella routine quotidiana, tra un fatto di cronaca e una faida politica qualsiasi, reclamano attenzione e ci spingono verso un sentimentalismo patetico che a poco a poco le sta svuotando del loro peso.
Come quelle tragedie lontane geograficamente da noi. La mafia. Sì, la mafia delle bombe e del tritolo, quella di Riina, Cosa Nostra, quella che ha ammazzato Falcone, Borsellino, ma anche Dalla Chiesa e Impastato.
Tutto così ben impresso nella memoria comune e al contempo tutto così lontano.
E quei giorni passano, le date si dimenticano finché poi non tornano, il ciclo ricomincia e succede anche che ventiquattro anni dopo il figlio di Riina scrive un libro e viene intervistato: ci tiene a far sapere che per lui l’ambiente familiare è stato assolutamente normale.
La mafia, la mafia delle bombe e del tritolo, nel nostro paese, è un argomento scomodo tanto quanto lo sono stati – e inevitabilmente continueranno ad essere – Falcone e Borsellino. Pagine della storia che ci si sente puntualmente in dovere di ricordare sì, ma con vergogna, con il capo chino tipico di chi sa d’aver sbagliato.
Le vittime di Cosa Nostra si aggirano sulle 5000: non basterebbe un anno per commemorarle tutte.
Cosa si potrebbe fare di più oggi, dunque?
Falcone diceva: “La mafia non è affatto invincibile”. Ma è vero? O forse ci siamo abituati alla sua presenza silenziosa – e quando vuole farsi sentire non usa di certo le parole – nelle pratiche del potere e non. Perché la mafia è anche quella dell’omertà.
Di chi sapeva e sa ma tace e ha taciuto. E ancora risuonano le parole di Borsellino: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.”
La mafia si può sconfiggere, questo è sicuro. Però in primis bisognerebbe volerlo all’unanimità e ciò implicherebbe dare ai cittadini gli strumenti adeguati per farlo.
La cultura. Quella necessaria per sapere, per conoscere e per travalicare i confini che la violenza e l’ignoranza in qualche modo ci impongono, perché è sui quei confini che ha costruito e costruisce la mafia.
La cultura e l’informazione vera, ben fatta e appassionata sono le uniche armi delle quali servirsi, le uniche che ci proteggono e ci rendono parte di un qualcosa di invincibile e immortale: le idee.
“Gli uomini passano, le idee restano” diceva Falcone.
“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola” diceva Borsellino.
E per fortuna non ci sono stragi Capaci di sotterrare le idee nel cemento.
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