Quella del 27 settembre sarà probabilmente ricordata come una delle giornate più lunghe di questi primi mesi della legislatura: ci sono volute più quasi 18 ore di lavoro fra consultazioni, riunioni, incontri più o meno ufficiali e un consiglio dei ministri per arrivare a mettere un punto fermo sulla manovra di bilancio del 2019. Alla fine, però, sembra che una “quadra” sia stata trovata.
Le cronache raccontano che Di Maio e Salvini sono riusciti a “far ragionare” il ministro Tria e ad accordarsi per una manovra basata su un deficit del 2,4%.
Un’ora prima di mezzanotte, al termine della seduta del Consiglio dei Ministri, il vicepresidente Luigi di Maio fa una sintesi della manovra ed elenca le misure in essa contenute.
Si va dal reddito di cittadinanza, alla flat tax fino alle pensioni e all’Iva.
Ma non una parola viene pronunciata sulle questioni dei contratti pubblici, degli stipendi dei docenti e delle misure per migliorare il funzionamento del sistema scolastico (estensione dei servizi di scuola dell’infanzia, riduzione del numero di alunni per classe e così via).
Una spiegazione ottimistica è che in questa fase i massimi vertici del Governo si stiano limitando a richiamare le misure che più di altre colpiscono l’opinione pubblica (evidentemente si continua a pensare che la scuola non sia un tema “popolare”).
Ma c’è anche una spiegazione più pessimistica (o forse addirittura realistica): per il momento risorse fresche per la scuola e per il pubblico impiego non ce ne sono. La spiegazione è assolutamente plausibile perché se ci fossero, avrebbero un peso non del tutto disprezzabile, si tratterebbe di almeno di 2-3 miliardi di euro, e quindi non sarebbero state dimenticate.
Per ora si tratta solo di deduzioni, per saperne qualcosa di più è bene aspettare qualche giorno.
Un dato però è fuori discussione: nella giornata più lunga di questi primi mesi di Governo, la parola scuola non è stata pronunciata da nessuno.
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