Categorie: Politica scolastica

Marcella Raiola: messa alla gogna per aver rifiutato il ruolo

Tanti sono stati i precari che hanno presentato, obtorto collo, il famoso domandone del 2015, che condizionava il dovuto ruolo a quella che poi è stata definita la “deportazione”.

Con le conseguenze che sono ormai acclarate e sotto gli occhi di tutti. Ma, parafrasando il buon Nietzsche, i fatti non esistono; esistono le loro interpretazioni. Sulla stessa questione, infatti, le reazioni possono essere antitetiche, a seconda dell’argomento su cui si fa leva, e i trasferimenti coatti dei docenti ne costituiscono una lampante prova.
Ascoltiamo la testimonianza della collega Marcella Raiola, precaria in lotta contro il modello della Scuola-azienda imposto dalla legge 107.


DOMANDA
Prof.ssa Raiola, lei a suo tempo rifiutò di fare la famosa domanda di assunzione su tutta Italia, che si prospettava come una sorta di riffa effettuata da un algoritmo impazzito…


Marcella Raiola
Ho lavorato per 15 anni, da precaria, nella mia regione, quella dell’oggi martoriato Vesuvio, con reiterati incarichi annuali (il posto c’era e c’è, dunque!) nei licei campani, denunciando i tagli lineari operati nel settore dell’istruzione dalla Gelmini alla Giannini, che sono la vera causa del protrarsi delle sofferenze dei precari. Ho lanciato, nell’agosto del 2015, una campagna di boicottaggio della “domanda” di assunzione, domanda assolutamente non necessaria, data la sentenza di condanna emessa dall’UE (21/11/2014) per il nostro precariato eterno, data la permanenza pluriennale in una graduatoria ad esaurimento, e dato il corrispondente, maturato diritto alla stabilizzazione nella provincia di appartenenza. La domanda fu pretesa come atto di sottomissione alla Scuola-azienda e all’arbitrio di un algoritmo – mai palesato nel suo funzionamento – che azzerava le carriere, cioè le vite dei precari, sovvertiva i punteggi, decideva a capriccio dove migliaia di persone, dall’oggi al domani, avrebbero dovuto prendere casa, e istituiva la figura del docente-inserviente tuttofare, con il famigerato “potenziamento”, in virtù del quale decine di docenti vengono pagati per non fare nulla, non essendo impiegabili in attività di alcun tipo, oppure sono utilizzati quasi esclusivamente per fare da “tappabuchi”. Precari di ruolo, insomma: uno dei tanti paradossi del paese.


DOMANDA
Poi lei decise di esternare pubblicamente il suo dissenso e allora se ne occupò anche la nostra testata. Quale fu la reazione della maggior parte d’Italia, della Scuola e dalla stampa?


Marcella Raiola
La reazione fu il linciaggio. Fui investita da centinaia di insulti pesantissimi, a seguito di una lettera che, conscia del rischio, pubblicai sul quotidiano “La Repubblica” nazionale (18 agosto), e, successivamente, nel corso della trasmissione “Agorà” (19 agosto 2015), dove mi gridarono in faccia: “va’ a lavorare!” alcuni ben pagati lacché di regime, che mi ferirono a morte, perché il lavoro di insegnante ha finora fagocitato il 95% della mia vita, perché mi alzo da 15 anni alle 5 del mattino per raggiungere, con mezzi pubblici che dal 2009 sono allo stremo per gli stessi tagli che hanno depauperato la Scuola, i licei dell’hinterland napoletano e perché lotto per una scuola degna della preziosità e delle aspettative di chi la frequenta. Mi si accusò di snobismo; si ricollegò il mio snobismo allo studio e all’insegnamento delle mie materie, ritenute inutili e stantie, cioè il Latino e il Greco (che in tutta Europa e anche in Asia sono tenute in altissimo conto); mi si disse che avevo “il gozzo pieno”, che “non tenevo famiglia”, e che perciò potevo permettermi di rifiutare l’elemosina umiliante di quel nemico che, tra le altre cose, ha trasformato gli studenti in manodopera a costo zero per gli imprenditori più spregiudicati, con l’alternanza Scuola-lavoro.


DOMANDA
Però molti fecero domanda, ognuno con le proprie sacrosante motivazioni, e iniziò il fenomeno della “deportazione”. Tanti precari erano donne e madri. Quale fu la reazione della stampa e del mondo della scuola?


Marcella Raiola
La stampa, la stessa per la quale io, nubile e senza figli, sarei stata da fucilare perché mi rifiutavo, dopo 15 anni di precariato, di ubbidire all’algoritmo occulto di Renzi, si schierò subito dalla parte delle mamme strappate ai loro teneri figli dal capriccio di un arido computer, delle mamme con figli disabili sbattute crudelmente a Pordenone, delle mamme con anziani di accudire, delle mamme e basta. Una sera, in una pizzeria, l’ex alunno di un collega, un simpatico giovane che faceva il cameriere per pagarsi gli studi, nel chiedere come ce la passassimo, deplorò sua sponte e con viva partecipazione umana il vergognoso trattamento riservato alle povere insegnanti (avete sentito?) costrette a lasciare le famiglie e i figli piccoli a casa. Fino a tal punto era stata pervasiva l’azione della stampa, e anche l’effetto della protesta intrapresa dai trasferiti, che avevano accettato la procedura pur ricorrendo subito avverso la stessa e chiedendo la verifica della sua conformità ai diritti costituzionalmente garantiti. Non è stato raro il caso in cui spesso, nel corso delle manifestazioni di protesta, sono stati sollevati cartelli con slogan del tipo: “Fateci crescere i nostri figli”. Tengo moltissimo a dire che la mia constatazione non vuole assolutamente essere una critica alla scelta operata dai colleghi che hanno prodotto domanda, sotto ricatto e tra mille sollecitazioni contrastanti. Siamo tutte e tutti vittime, infatti, della guerra dichiarata alla Scuola pubblica dai governi di “nominati”. Tra i “deportati”, peraltro, ci sono docenti che hanno lottato contro la “Buona Scuola” fin dall’inizio, al fianco dei quali continuo a combattere contro l’impianto della Legge 107, insostenibile per chi intenda la Scuola come una comunità che educa. Il mio è un ragionamento sulle reazioni della popolazione e sugli stili comunicativi “accreditati”, che obbligano anche chi protesta a ricorrere a determinate strategie.


DOMANDA
C’è da riflettere dunque. La reazione a un sopruso legalizzato, in un’Italia familista, può essere ora condannata ora osannata…


Marcella Raiola
Sì… Dovrebbe far molto riflettere il fatto che quando abbiamo rivendicato quel che ci spettava in nome della professionalità, della tenuta del sistema scolastico profilato dalla Costituzione, della deontologia, della decenza istituzionale, della giustizia sociale e del diritto al lavoro, abbiamo preso calci, insulti e sputi; quando abbiamo assunto, invece, la facies delle matres dolorosae, la stessa, identica rivendicazione è diventata sacrosanta ed è stata non solo furbamente cavalcata dalla nostra invereconda stampa, ma anche percepita come giusta e indiscutibile dalla stessa gente che aveva insultato e preso a calci le insegnanti che non avevano fatto leva sulla maternità o sui legami familiari per pretendere il riconoscimento del loro diritto al lavoro. A mio parere, è molto significativo. E preoccupante

 

 

Tanti sono stati i precari che hanno presentato, obtorto collo, il famoso domandone del 2015, che condizionava il dovuto ruolo a quella che poi è stata definita la “deportazione”. Con le conseguenze che sono ormai acclarate e sotto gli occhi di tutti. Ma, parafrasando il buon Nietzsche, i fatti non esistono; esistono le loro interpretazioni. Sulla stessa questione, infatti, le reazioni possono essere antitetiche, a seconda dell’argomento su cui si fa leva, e i trasferimenti coatti dei docenti ne costituiscono una lampante prova.

Ascoltiamo la testimonianza della collega Marcella Raiola, precaria in lotta contro il modello della Scuola-azienda imposto dalla legge 107.

Prof.ssa Raiola, lei a suo tempo rifiutò di fare la famosa domanda di assunzione su tutta Italia, che si prospettava come una sorta di riffa effettuata da un algoritmo impazzito…

Ho lavorato per 15 anni, da precaria, nella mia regione, quella dell’oggi martoriato Vesuvio, con reiterati incarichi annuali (il posto c’era e c’è, dunque!) nei licei campani, denunciando i tagli lineari operati nel settore dell’istruzione dalla Gelmini alla Giannini, che sono la vera causa del protrarsi delle sofferenze dei precari. Ho lanciato, nell’agosto del 2015, una campagna di boicottaggio della “domanda” di assunzione, domanda assolutamente non necessaria, data la sentenza di condanna del nostro paese emessa dall’UE (21/11/2014) per il nostro precariato eterno, data la permanenza pluriennale in una graduatoria ad esaurimento, e dato il corrispondente, maturato diritto alla stabilizzazione nella provincia di appartenenza. La domanda fu pretesa come atto di sottomissione alla Scuola-azienda e all’arbitrio di un algoritmo – mai palesato nel suo funzionamento – che azzerava le carriere, cioè le vite dei precari, sovvertiva i punteggi, decideva a capriccio dove migliaia di persone, dall’oggi al domani, avrebbero dovuto prendere casa, e istituiva la figura del docente-inserviente tuttofare, con il famigerato “potenziamento”, in virtù del quale decine di docenti vengono pagati per non fare nulla, non essendo impiegabili in attività di alcun tipo, oppure sono utilizzati quasi esclusivamente per fare da “tappabuchi”. “Precari di ruolo”, insomma: uno dei tanti paradossi del paese.

Poi lei decise di esternare pubblicamente il suo dissenso e allora se ne occupò anche la nostra testata. Quale fu la reazione della maggior parte d’Italia, della Scuola e dalla stampa?

La reazione fu il linciaggio. Fui investita da centinaia di insulti pesantissimi, a seguito di una lettera che, conscia del rischio, pubblicai sul quotidiano “La Repubblica” nazionale (18 agosto), e, successivamente, nel corso della trasmissione “Agorà” (19 agosto 2015), dove mi gridarono in faccia: “va’ a lavorare!” alcuni
ben pagati lacché di regime, che mi ferirono a morte, perché il lavoro di insegnante ha finora fagocitato il 95% della mia vita, perché mi alzo da 15 anni alle 5 del mattino per raggiungere, con mezzi pubblici che
dal 2009 sono allo stremo per gli stessi tagli che hanno depauperato la Scuola, i licei dell’hinterland napoletano e perché lotto per una scuola degna della preziosità e delle aspettative di chi la frequenta.
Mi si accusò di snobismo; si ricollegò il mio snobismo allo studio e all’insegnamento delle mie materie, ritenute inutili e stantie, cioè il Latino e il Greco (che in tutta Europa e anche in Asia sono tenute in altissimo conto); mi si disse che avevo “il gozzo pieno”, che “non tenevo famiglia”, e che perciò potevo permettermi di rifiutare l’elemosina umiliante di quel nemico che, tra le altre cose, ha trasformato gli studenti in manodopera a costo zero per gli imprenditori più spregiudicati, con l’alternanza Scuola-lavoro.

Però molti fecero, ognuno con le proprie sacrosante motivazioni, domanda e iniziò il fenomeno della deportazione. Tanti precari erano donne e madri. Quale fu la reazione della stampa e del mondo della scuola?

La stampa, la stessa per la quale io ero da fucilare perché mi rifiutavo, dopo 15 anni di precariato, di ubbidire all’algoritmo di Renzi, si schierò subito dalla parte delle mamme strappate dal capriccio di un arido computer ai loro teneri figli, delle mamme con figli disabili sbattute crudelmente a Pordenone, delle mamme con anziani di accudire, delle mamme e basta.
In una pizzeria, un ex alunno di un collega, che faceva il cameriere per pagarsi gli studi, nel chiedere come ce la passassimo, deplorò sua sponte e con viva partecipazione umana il vergognoso trattamento riservato alle povere insegnanti (avete sentito?) costrette a lasciare le famiglie e i figli piccoli a casa.
Tanto era stata pervasiva l’azione della stampa, e anche la protesta innescata dai trasferiti, che avevano accettato la procedura pur ricorrendo subito e chiedendo la verifica di conformità della stessa ai diritti costituzionalmente garantiti, i quali (le quali) spesso hanno sollevato, nel corso delle proteste, cartelli con slogan del tipo: “Fateci crescere i nostri figli”.

C’è da riflettere dunque. La reazione a un sopruso legalizzato in un’Italia familista può essere ora condannata ora osannata…

Quello che voglio dire è che quando abbiamo rivendicato quel che ci spettava in nome della professionalità, della tenuta del sistema scolastico, della deontologia, della decenza istituzionale, della giustizia sociale e del diritto al lavoro, abbiamo preso calci, insulti e sputi; quando abbiamo assunto la facies delle matres dolorosae, la stessa, identica rivendicazione è diventata sacrosanta ed è stata non solo furbamente cavalcata dalla nostra invereconda stampa, ma anche percepita come giusta e indiscutibile dalla stessa gente che aveva insultato e preso a calci le donne-insegnanti che non avevano fatto leva sulla maternità o sui legami familiari per pretendere il riconoscimento del loro diritto al lavoro.

Silvana La Porta

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