In un periodo in cui in molte regioni d’Italia si pressa affinchè le “lingue locali”, meglio note come “dialetti” (visto che non hanno codici standard, né regole precise comuni, né significati e significanti regolati e riconosciuti universalmente all’interno stesso delle aree interessate) vengano diffuse e studiate nelle scuole, esce per A&B edizioni un testo in dialetto siciliano “sui generis” e nello stesso tempo assai pregevole.
Singolare e accattivante perchè si immerge dentro una operazione, pochissime altre rare volte tentata in vero, che ha come elemento di sostanza la traduzione di testi latini che per la loro peculiarità e il loro interesse umano, civile e sociale, ancora si lasciano leggere e soprattutto riescono a sedurre il lettore. Si tratta della trasposizione in dialetto siciliano di alcuni “Epigrammi” del grande e ancora ben citato Marziale, che ora trovano posto nel testo di Paolo Sessa dal titolo “A mala sorti”.
La malasorte infatti talvolta si augura a qualcuno che è inviso (a te la mala pasqua!, auspica Santuzza a Turiddu nella Cavalleria rusticana), anche se si tratta sempre, e in ogni caso, di un peccato, mortale, mentre “malassurtatu/a”, nel dialetto siciliano, ha per lo più valore di pietà cristiana, di condivisione del dolore che il male medesimo ha provocato, intromettendosi nella sorte, a sua volta baldracca o verginella a seconda di ciò che combina nella vita dell’uomo. Non è però questo secondo il caso di questo ultimo libro di Paolo Sessa: “A mala sorti. Epigrammi scelti” dalla fecondissima produzione di Marco Valerio Marziale e tradotti in dialetto dal dotto autore che si inerpica, con tutti gli strumenti linguistici a sua disposizione, tra le rime ardue, ancorché antiche, ma brillanti, del famoso artista romano che ancora, anche nell’originale latino, per chi lo conosce, riesce a farci sorridere e pure lacrimare quando i suoi versi, si vedano le poesie funebri, lo consentono.
Perché Marziale (30 o 41- 104 d.C.), forse perché originario della Spagna, forse perché abbronzato dal medesimo sole mediterraneo, era un po’ siciliano anche lui: godereccio, pungente, osservatore e castigatore, e dotato, chissà, di quella “liscia” etnea che ancora oggi non solo ci diverte ma ci induce a pensare, come farebbe il più intrigante degli affabulatori-rimatori. Tant’è che i suoi epigrammi, quindici libri, per un totale di 1.561 componimenti, pubblicati tutti dal poeta stesso, sono giunti fino a noi nella loro freschezza e peculiarità originaria.
E allora Sessa cosa fa? Ne sceglie un buon numero, con pinze filologiche ammirevoli, e le traduce nella parlata dell’Isola, badando bene però di attivare meccanismi linguistici codificati, se così si può dire per il dialetto, in quella monumentale opera, iniziata dal prof Giorgio Piccitto e continuata da Tropea e Trovato, che è il “Vocabolario Siciliano-Italiano”, edito dal Centro Studi Filologici e Linguistici Siciliani. Dunque, nulla è lasciato al caso, o all’improvvisazione grafica, della scrittura insomma, benché il traduttore operi delle scelte singolari in fase di traslazione, che, se per un verso danno più sapore e vivacità ai testi latini, dall’altro costringono a venire a patti con una realtà assai più vicina a noi.
E allora luoghi dell’antica Roma diventano paesini e contrade locali, come pure condizioni esistenziali vengono cucite dentro panni più attuali: per dare più pepe certamente alle stoccate finali che gli epigrammi trattengono nella loro struttura, e anche per consentire alle rime di passare dal verso latino a quello sillabico della metrica italiana, e dialettale nel caso in esame. Scelta ponderata, precisa Sessa, ma pure più giocosa, briosa e arguta, così come Marziale intendeva comunicare, e così come il traduttore ha voluto rendere per restituirci un autore latino più vitale e immortale che mai.
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