Nonostante uno dei requisiti imprescindibili dell’elaborato multidisciplinare da esporre agli esami di Stato sia l’originalità (leggi: personalizzazione delle idee esposte), la tentazione di tanti studenti di inserirvi allegramente intere parti copiate da internet è sempre molto alta. Sanno che i docenti potrebbero accorgersene facilmente, ma un errore sistematico chiamato bias ottimistico fa pensare loro che la faranno franca e che il problema riguarderà semmai gli altri.
E’ una tentazione comprensibile, in tanti casi. Il testo preso da altre fonti, con quel linguaggio concettualmente “alto”, conferisce al loro prodotto, agli occhi di diversi alunni, un’aura di “professionalità” aggiuntiva. In altri casi, invece, l’intento è soprattutto quello di evitare il faticoso lavoro di rielaborazione personale, sperando di “farla franca”. E questo è chiaramente ben altro discorso.
I docenti cambiano d’umore al primo apparire di frasi sospette, come “approccio destrutturato e minimalista alla poetica leopardiana”, campeggianti nei testi di alunni che fino ad un anno prima si è faticato a convincere che “lavoro” si scrive senza l’apostrofo.
Su questo punto, troviamo due grandi categorie antropologiche di insegnanti. La prima è quella dei “duri e puri”. Qui l’insegnante chiede conto agli esami di ogni singola “stranezza” presente nel testo: “Mi ha colpito questo particolare periodo linguistico presente nel tuo testo. Interessante. Ma, potresti dirmi, con parole tue, cosa intendevi dire, esattamente?”, che in fondo è un modo solo apparentemente gentile per far notare all’alunno che la prossima volta è meglio provi a prendere in giro qualcun altro.
All’estremo opposto abbiamo il “compassionevole”, che glissa sulle parti da premio Nobel che hanno infiorettato il testo del ragazzo e lo ascolta pazientemente ripetere a memoria discorsi sulla cui effettiva comprensione da parte sua si guarda bene dall’indagare ulteriormente.
Ma cosa spinge tanti ragazzi a commettere questo “classico” errore, pur essendo stati avvertiti per tempo e più volte che verrebbero facilmente scoperti? Il primo imputato in questi casi è un meccanismo psicologico interessante che chiamiamo bias ottimistico o, in alcuni casi, bias dell’illusione del controllo (E. Langer, 1975), che ci induce a sovrastimare le nostre possibilità di successo in diverse circostanze, a dispetto delle probabilità oggettive. Per intenderci, lo stesso che interviene spesso, e ad un livello ben più drammatico, nel gioco d’azzardo compulsivo o in tante decisioni imprenditoriali fallimentari.
Un classico caso è quello del negoziante che va a rilevare un esercizio commerciale dopo il fallimento di sei precedenti gestori. La logica indurrebbe a dire che, se hanno fallito in diversi prima di noi, non ci conviene andare ad imbarcarci in simili avventure (magari quell’esercizio sconta una posizione non vantaggiosa). Invece, il bias ottimistico ci spinge a dire a noi stessi il fatidico e famigerato: “a me non succederà”.
Diversi studenti cadono probabilmente in questo errore di valutazione e pensano che il loro testo da presentare all’esame non sarà “scoperto” come un sostanziale fake, complice magari qualche minima variazione lessicale introdotta con ingenua “furbizia” qua e là.
Un intervento didattico utile potrebbe essere quello di invitare per tempo gli studenti ad assumere il ruolo del docente nei confronti dei lavori di alcuni compagni, in modo incrociato, magari con brevi colloqui con loro a conferma delle proprie tesi in merito e con consigli a fine lettura. Perché se è un compagno a dirti che nel tuo testo c’è qualcosa di “strano”, perfino l’arrembante bias ottimistico potrebbe fare un umile e salutare passo indietro.
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