Il tasso demografico in caduta libera porta meno iscritti a scuola, da tempo ormai oltre 100 mila banchi in meno l’anno in tutta Italia. Ma questo comporta che si hanno meno alunni per classe? Macchè, i parametri per creare nuove classi rimangono sempre gli stessi e sono quelli, decisamente “altini”, prodotti dalla riforma sul dimensionamento Gelmini-Tremonti: con prime classi alle superiori, ad esempio, servono almeno 27 studenti. E non è poco, perché il passo successivo, se si aggiunge qualche studente in più, è quello di arrivare alle tanto contestate (giustamente) classi pollaio.
Ecco perché le mancate iscrizioni sembravano un’opportunità per sistemare le cose: quale migliore occasione per creare classi con meno alunni e fornire un ambiente scolastico più vicino alle esigenze dei docenti che nelle scuole dei Dsa, Bes e dei bisogni formativi sempre più individualizzati, sono costretti a portare avanti percorsi didattici ad personam? La legge, però, non si può aggirare. Il Ministero ha garantito che per alcuni anni l’organico non si toccherà. Peccato che i docenti in più verranno impiegati per compensazioni, sostituzioni, potenziamento e altre attività collaterali alla docenza.
Da Firenze arrivano esempi pratici che confermano tutto questo. Secondo Emanuele Rossi, segretario generale Flc Cgil del capoluogo fiorentino, “la provincia è piombata in un inverno demografico di cui non si vede ancora la fine, non diversamente da tanti altri territori del nostro paese: le studentesse e gli studenti delle nostre scuole a settembre saranno in totale circa 115.600, ma nel complesso la popolazione scolastica calerà di circa 2.100 unità rispetto all’anno precedente”.
Solo che, sostiene ancora Rossi, “siamo di fronte all’ennesima occasione persa: visto il calo della popolazione scolastica, sarebbe bastato mantenere lo stesso numero di classi e docenti per garantire un numero più basso di alunni per classe e un rapporto più virtuoso fra insegnanti e studenti“.
“E invece anche stavolta il Ministero ha dato “pollice verso”: a settembre nella nostra provincia avremo in servizio ben 40 docenti in meno e saranno attive ben 38 classi in meno; i gradi di scuola più colpiti sono l’Infanzia e la primaria, con una perdita rispettivamente di 10 e 36 classi in tutta la provincia, solo in parte compensate dalle 8 classi in più nella secondaria”.
Anche i datori di lavoro si lamentano
Ma non è solo la scuola a subire le conseguenze dell’emergenza demografica in atto in Italia: “entro il 2030 ci saranno 150mila lavoratori in meno all’anno, per il 70% maschi, come saldo tra flussi in entrata pari ad oltre 450mila unità e flussi in uscita crescenti, in media superiori alle 600mila unità. Il dato è contenuto nel Monitor “Il mercato del lavoro in Italia, tra record e mismatch“, realizzato da Area Studi Legacoop e Prometeia.
Le difficoltà di reclutamento lavoratori sono già evidenti: nel 2023 il 40% delle imprese dei servizi e il 9% delle imprese manifatturiere segnalava la mancanza di lavoratori come un ostacolo alla produzione.
E il tasso di posti vacanti (un indicatore della domanda di lavoro) è in crescita dal 2013. Il trend della domanda di lavoratori a basso livello di istruzione, però, specifica il rapporto, ha cominciato a crescere più rapidamente rispetto al trend della domanda di lavoratori con livelli di istruzione più elevati. I primi costituiscono più del 50% della domanda, ma l’offerta non riesce a tenere il passo. Per i lavoratori ad alto livello di istruzione, il problema è invece il disallineamento tra la loro specializzazione e quella richiesta dal mercato.
Ad esempio, se per discipline economiche, ingegneria e architettura, scienze dell’educazione l’offerta di nuovi laureati non riesce a coprire la domanda, per medicina e farmacia il mismatch è quasi nullo, mentre il rapporto si inverte per le discipline umanistiche, in scienze politiche e sociali e in lingue straniere (con un’offerta che è quasi il triplo della domanda) e in psicologia (offerta quasi quadrupla rispetto alla domanda).
Legacoop e Prometeia sottolineano però che in realtà in Italia “esiste un’ampia disponibilità di forza lavoro potenziale alla quale si potrebbe attingere”, considerando che il tasso di partecipazione degli uomini è del 78,5% (un dato non molto lontano dalla media Ue del 79,6%), mentre per le donne si è fermato al 59,5% (contro la media Ue del 70,5%). Oltre ai disoccupati (circa 1,8 milioni), un numero ancora maggiore di individui è underemployed, oppure inattiva.
Puntare sui programmi di re-skilling
I fattori che limitano il ricorso a questo bacino di lavoratori, sono di nuovo l’istruzione e la collocazione geografica, evidenzia l’analisi, ritenendo necessari “programmi di re-skilling, in modo da allineare le competenze della forza lavoro disponibile con quelle richieste dal mondo del lavoro”, e “politiche che facilitano i movimenti tra Regioni o che riallochino la domanda di lavoro nelle zone con un eccesso di offerta”.
Subito dopo la pandemia, spiega Simone Gamberini, presidente di Legacoop, “abbiamo constatato abbassamento dei tassi di disoccupazione, ma pure disallineamento dei percorsi di istruzione e formazione rispetto alla possibile occupabilità. La mancanza di manodopera per oltre un terzo delle nostre cooperative è il primo problema per lo sviluppo aziendale, ben davanti ai costi delle materie prime e persino all’accesso al credito; in alcuni settori e territori questa percentuale lambisce il sessanta per cento”.
“Di fronte a questa situazione occorre innanzitutto un cambio generalizzato di mentalità: istruzione, formazione, politiche attive del lavoro in questa fase sono la soluzione sia ai problemi delle persone sia del sistema produttivo. Un Paese che spreca le proprie risorse perché non trova il modo di valorizzarle nel posto giusto, evidentemente non funziona”, conclude Gamberini.