Intervengo in merito al dibattito (non nuovo) sul cosiddetto merito degli insegnanti e sulle sue possibili implicazioni nella remunerazione economica. Ho trascorso 58 dei miei 65 anni a scuola, laureatami a 22 anni in Filosofia, poi passata, concorso dopo concorso, nei ruoli dell’insegnamento dalla scuola primaria alla secondaria di primo grado ai licei. Ho insegnato per convinzione e per amore, attratta già da bambina, grazie a guide speciali, dalla bellezza dell’apprendere e della relazione educativa. Nella mente ho ben impresse figure che si collocano in varie fasi della vita: ancora tra i banchi, da alunna, o a scuola da docente. Con certezza, non hanno rilievo insegnanti poco presenti in classe (“poco”: nel senso letterale di “per poco tempo”), o perché presi da interessi/attività esterni alla scuola, o anche perché sottratti alla doverosa presenza tra gli alunni, nelle ore ufficialmente di lezione, tra un’incombenza e l’altra legata ad attività progettuali.
Lo scivolamento della scuola, se si vuol fare riferimento agli insegnanti, è un’area d’ombra in gran parte riconducibile ad una molteplicità di fattori quali una presenza ‘porosa’ in classe, scarsa cura dell’aggiornamento, incerta preparazione sul piano pedagogico e didattico, demotivazione, aspetti configurabili già in molti insegnanti ben prima della proposta del ministro Berlinguer. D’altronde, la questione del merito si carica inevitabilmente di spunti spinosi e controversi. Basti considerare che la parola “merito” (analogamente alla parola “valore”) non è termine oggettivo, ma chiama in causa il punto di vista di chi ha ruolo e potere per attribuire merito (o valore). Se dall’alto dell’impianto dell’istituzione-scuola ci spostiamo per riconoscere come parametro di giudizio la risposta degli alunni, il rischio è quello di incorrere in una distorsione simmetricamente opposta. Davvero, come sostiene qualche voce accreditata, il silenzio degli studenti quando la docente/il docente è in classe dimostra la sua bravura? Potrei testimoniare mille e mille volte di no! Davvero, come qualcun altro sostiene, i problemi di disciplina emergono “quando non si sa tenere la classe”?
Credo piuttosto che la relazione con gli studenti sia una realtà assolutamente dinamica che può incontrare sfide con cui misurarsi per reggerle e superarle, nel loro bene; una realtà dinamica che esige una relazione di cura, tempo, attenzione, pazienza, sensibilità, capacità di ascolto, preparazione – a monte- ed aggiornamento continuo, competenza metodologica e condotte rispondenti ad una consapevole deontologia professionale.
Prefigurare remunerazioni differenziate al di là dei tratti elettivi che costituiscono la qualità di chi insegna, rinforza purtroppo il disconoscimento di quel che serve affinché la scuola possa risultare più credibile e migliore.
Maria Benedetta Marchese
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