Il ministro Valditara insiste: il problema della Scuola è il merito. Molti docenti esultano: finalmente la Scuola torna ad essere cosa seria? Può darsi. Certo è, tuttavia, che la parola “merito”, secondo il ministro (in linea su questo con tutti i governi precedenti degli ultimi trent’anni), va declinata più per i docenti e gli ATA che per gli studenti (per i quali si ipotizza l’abolizione dei voti anche alle superiori).
Non tutti se ne accorgono, ma il messaggio subliminale è molto chiaro: occorre valorizzare il “merito” di alcuni per far emergere il “demerito” di altri, per colpa dei quali la Scuola non funziona come dovrebbe. Qualche bastonata per questi ultimi, quindi, unitamente a qualche porzione di gustose carote per pochi “meritevoli”, e il gioco sarà fatto. Con poca spesa. E, a proposito di spesa, il ministro si vanta di aver concesso “il più importante aumento degli ultimi rinnovi”: benché, a ben vedere, si tratti di arretrati, e non di aumenti.
Nulla di nuovo sotto il sole, quindi: il problema della Scuola italiana non sono gli scarsissimi finanziamenti, non le picconate appioppate da tutti i governi al sistema scolastico tagliando cattedre e finanziando le scuole private; il problema è la contrapposizione merito/demerito.
Si compie così il processo avviato un trentennio fa: quello della trasformazione della Scuola italiana da istituzione in azienda, impegnata a competere sul “mercato” con tutte le altre “scuole-azienda” del territorio, dentro le quali unica legge è la competizione tra i lavoratori e tra i docenti, nel nome del “merito”. Poco importa se tutto ciò distrugge l’idea stessa di Scuola come comunità educante, facendo sì che la Scuola non sia più nemmeno una comunità.
Tutto ciò non ha niente che fare con la pedagogia, con la Costituzione, con la realtà: è ideologia pura; ideologia neoliberista (di matrice calvinista e anglosassone). Gli effetti nefasti di tutto ciò si vedono. Cresce il malessere dei docenti nelle scuole, proporzionalmente al crescere dell’atmosfera di controllo, alla trasformazione dell’insegnamento in pratica burocratica, alla necessità di rendicontare, di dimostrare i risultati del proprio lavoro: non per il bene degli allievi, ma per non essere accusati di alcunché, e per aver le carte in regola.
Che senso ha, in una Scuola ridotta così, il meravigliarsi del fatto che tra gli adolescenti — e tra i docenti — stanno aumentando, con “dimensioni pandemiche”, le patologie psichiatriche? I giovani stanno male perché gli adulti stanno male: soprattutto se gli adulti che stanno male sono i loro genitori e i loro maestri, che dovrebbero guidarli al benessere psicofisico e al pieno sviluppo delle proprie potenzialità. Cosa occorrerebbe per star meglio? Rendersi conto che la rotta è sbagliata, ed invertirla.
Siamo tutti indotti ad un “egoismo povero”, per il quale ci sentiamo appagati — ad esempio — non se tutti veniamo pagati meglio, ma se il collega “demeritevole” viene escluso dai “premi” riservati ai ”meritevoli”. La confusione e l’incertezza che ne derivano ci intossica, ma non ne siamo nemmeno consapevoli, perché l’ideologia ufficiale — amplificata da cento testate televisive e da tutti i media — ci è entrata nelle vene e nella pelle, imprigionandoci nell’autoreferenzialità e nella superficialità del giudizio.
Chi opera nella Scuola non ha nemmeno un momento per soffermarsi a riflettere sull’utilità del proprio agire, immerso com’è nell’episodicità di “progetti” cui spesso non è sottesa alcuna visione pedagogica complessiva. La corsa ad utilizzare i mezzi telematici, visti sempre più come fine anziché come strumento, diviene una galoppata furiosa verso un concetto globale di “modernità”, per definire la quale non ci si sofferma a riflettere nemmeno mezzo secondo. La riflessione sembra anzi suscitare ansia e irritazione, specie se controcorrente, e isola, ghettizzandolo, chi si permette l’ardire di mettere in discussione ciò che tutti, senza riflettere, eseguono.
Le voci fuori dal coro si scontrano con la logica del branco (oramai dominante anche tra gli adulti), restando ininfluenti; soprattutto se puntano l’indice sull’estemporaneità e sulla casualità delle pratiche scolastiche dominanti, nonché sulla subordinazione ad esse dei principi etici.
Parlare di “merito” in una situazione consimile risulta grottesco. Soprattutto se si osserva che il definanziamento della Scuola pubblica (parallelo al contemporaneo finanziamento crescente — ed extra costituzionale — delle private) sta trasformando la Scuola pubblica stessa in surrogato povero delle scuole private: le quali chiedono allo Stato soldi per non sparire del tutto, dal momento che gli italiani continuano in massa preferire la Scuola pubblica (a differenza di altri popoli europei)!
Dov’è la salvezza da tutto ciò? Nel tornare a considerare la Scuola per quello che è (e che la Costituzione prevede): una istituzione, dove non ci siano “utenti” né “operatori”, ma una viva comunità di cittadini, consapevoli della libertà d’insegnamento e della libertà d’apprendimento: un luogo ove non prevalgano “pedagogie di Stato” né mode dettate dal mercato, ma la libera rielaborazione e creazione collettiva del sapere di una nazione.
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