Pochi mesi fa, all’indomani della morte di Andrea Canevaro avvenuta il 26 maggio scorso, la rivista comune.info aveva ripeso una vecchia intervista al noto pedagogista bolognese fondatore della pedagogia speciale in Italia (in realtà Canevaro era nato a Genova, ma tutta la sua attività professionale si era svolta a Bologna e in Emilia-Romagna).
Nel corso dell’intervista, curata da Emilia Di Rienzo, si parlava molto della questione del merito, ed è per questo che ne riproponiamo qualche passaggio.
“Merito – spiegava Canevaro – è una parola molto utilizzata, soprattutto nel suo derivato meritocrazia. Uno li obiettivi, e uno dei vanti, di un certo modo di proporre un progetto politico fa riferimento alla necessità di restaurare i principi meritocratici. Che, nella corruzione delle parole, sono intesi come meriti da confermare”.
“Ma – avvertiva il pedagogista – c’è chi nasce fortunato, e chi nasce sfortunato. Secondo questo presupposto, i principi meritocratici possono essere interpretati come l’individuazione il più possibile precoce dei fortunati, i meritevoli, che devono ricevere tutte le attenzioni. Mentre gli altri, gli sfortunati immeritevoli, devono essere messi in condizione di non far perdere tempo, energie e soldi. Per questo, coerentemente, è non solo inutile ma dannoso come ogni sperpero: organizzare tempo pieno scolastico, insegnanti specializzati per l’integrazione, compresenze, e altri accorgimenti didattici. E nelle università è dannoso perdere tempo, energie e soldi per la ricerca didattica che tenga conto dei bisogni speciali di alcuni, gli sfortunati”.
In ogni caso c’è un elemento di cui tenere conto.
Diceva Canevaro che si parla di merito e di demerito, “come destino, favorevole o avverso, ma sempre individuale”.
Si tratta insomma del merito “come carta di credito ricevuta dalla fortuna e che permette di sfuggire al faticoso calcolo della realtà, al pesante sacrificio che rende possibile ciò che si desidera”.
C’è però un altro aspetto: “I meriti possono essere promossi attraverso la valorizzazione di chi presenta originalità non previste. Bisogna imparare dagli imprevisti. L’educazione, la formazione, possono realizzarsi se e perché l’altro (allievo) è attivo. Il voler togliersi di torno gli imprevisti vuol dire far ricorso a strumenti che possono sembrare rigorosi come la selezione, la bocciatura, la severità…, e scientifici come i farmaci, i trattamenti differenziati, gli specialismi…. Ma togliersi di torno gli imprevisti vuol dire rinunciare alle innovazioni. Gli economisti ci dicono che questa rinuncia significa declino. Le innovazioni derivano dall’accettazione delle sfide che chi non era previsto ci pone”.
E allora, fare i conti con l’imprevisto potrebbe servire, e anche parecchio.
Ma affrontare l’imprevisto e accettare le sfide è quasi sempre un’azione collettiva: neppure una spedizione per una prima invernale in solitaria sul K2 può prescindere da un meticoloso e complesso lavoro di squadra preparatorio che dura spesso mesi, se non anni.
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