Innamorata del “merito”, l’Italia abbraccia da 40 anni l’idea che premiare chi lo “merita” sia un compimento della democrazia. Pochi han trovato da ridire sull’ingresso della parola “merito” nel nome del ministero della (ex) pubblica istruzione. Eppure quel concetto – cui lo storico Mauro Boarelli ha dedicato nel 2019 il saggio Contro l’ideologia del merito – nasce dall’impresa privata: ove è “meritevole” chi aumenti i profitti dell’azienda. Concetto assurto ai massimi onori con l’avvento dell’economia (e dell’ideologia) neoliberistica. Quell’ideologia secondo cui chi è ricco e potente deve potenza e ricchezza unicamente ai propri meriti; mentre chi, al contrario, è povero e indifeso, deve debolezza e povertà ai propri demeriti.
Idea democratica? No: dogma calvinista, che vede la predestinazione come imperscrutabile volontà divina. Inutile e sacrilego contrastarla. Inutile anche perder tempo a cercare di rendere la società più giusta e pietosa verso i perdenti: che tali sono perché demeritano. Se poi demeritano anche a causa delle loro condizioni sociali, poco importa. È così e basta.
Di conseguenza, l’economia è l’unica dimensione che conti, e il mercato è razionale e giusto. L’uomo deve essere “ad una dimensione” – Marcuse docet – perché alla razionalità del mercato si può ricondurre qualsiasi aspetto dell’esistenza. Tutto è monetizzabile, anche le persone: esse diventano “capitale umano”, se moltiplicano il profitto, fine ultimo dell’homo oeconomicus.
Studenti “meritevoli” sono perciò quelli che adattano al sistema il proprio capitale umano. Se non sanno farlo, è colpa loro, perché non sanno adeguarsi al sistema, che è di per sé perfetto. Per verificare il loro “merito”, test standardizzati a crocette sono l’ideale, proprio perché non misurano il loro pensiero critico (che anzi potrebbe porre in discussione tutto l’impianto ideologico), ma la loro capacità di cogliere la logica complessiva del test, di adattarsi e piegarsi al tipo di risposte che si vuole da loro, di appiattirsi sull’ideologia dominante e incasellarvisi alla perfezione, maturando “competenze” che lubrifichino gli ingranaggi del sistema.
Di conseguenza, insegnanti “meritevoli” son quelli che insegnino agli studenti piegarsi e adattarsi all’esistente senza discutere: non più quelli che (come i nostri docenti mezzo secolo fa) inducono i discenti ad acquisire conoscenze basilari per esser liberi, attraverso l’istruzione, di scegliere criticamente e consapevolmente. Scuole “meritevoli”, d’altro canto, sono quelle che riescono – mediante premi e/o penalizzazioni – a spingere i docenti verso l’adesione all’ideologia.
Nulla di nuovo sotto il sole. L’idea che il potere sia nelle mani dei “migliori” e “meritevoli” è molto antica: risale almeno a 5.000 anni fa, quando nacquero le prime forme di Stato. Gli oligarchi greci chiamavano se stessi “àristoi” (i migliori); stesso significato aveva a Roma il termine “optimates”, di cui gli esponenti della nobilitas amavano fregiarsi. Il concetto è dunque intimamente – da sempre – di natura ideologica: un castello ideologico innalzato da chi comanda, affinché il suo potere sia riconosciuto come giusto e ineliminabile.
La morale neoliberistica, in più, ha radici calviniste e luterane. Nel suo “Fuga dalla libertà”, Erich Fromm ricorda le parole di Lutero: «Anche se coloro che hanno l’autorità sono malvagi e privi della fede, nondimeno l’autorità e il suo potere sono buoni e vengono da Dio» (Martin Lutero, Vorlesung über dem Römerbrief, cap. 13, 1). «Tanto la personalità di Lutero», chiosa Fromm (Fuga dalla libertà, p. 73), «quanto i suoi insegnamenti rivelano un’ambivalenza verso l’autorità. Da una parte ha paura dell’autorità – l’autorità mondana e quella di un Dio tirannico – e dall’altra si ribella all’autorità: quella della Chiesa. Egli rivela la stessa ambivalenza nel suo atteggiamento verso le masse. Finché si ribellano entro i limiti posti da lui, egli è con loro. Ma quando attaccano le autorità che egli approva, manifesta un odio e un disprezzo profondi per le masse. (…) Questo simultaneo amore per l’autorità e odio contro quelli che sono impotenti sono tratti tipici del “carattere autoritario”».
Non è forse una manifestazione di odio contro gli ultimi il non riconoscere che al “merito” si giunge solo se le condizioni di partenza sono tali da consentirlo? Un ragazzo che debba lavorare il pomeriggio sarà bravo a scuola come chi deve solo studiare? Una ragazza che viva in una periferia degradata studierà con la stessa serenità delle sue coetanee dei quartieri ”bene”? Al sistema non interessa. Il sistema è perfetto per definizione, sei tu che devi adattarti. Se non sai farlo, non sei adatto. Punto.
In questa direzione va anche la regionalizzazione differenziata, che di fatto regalerà denari alle regioni (coi loro ospedali e le loro scuole) ricche, risparmiando sulle sovvenzioni alle povere. Le diseguaglianze sono giuste, perché indicative del “merito”: guarda caso, infatti, i sostenitori della meritocrazia appartengono sempre alla categoria di quanti “ce l’hanno fatta”; anche e soprattutto se ce l’hanno fatta perché figli, nipoti e pronipoti di papà che contavano. Si realizza così ciò che il sociologo inglese Michael Young preconizzò nel proprio romanzo distopico L’avvento della meritocrazia (1958): una radicale disuguaglianza sociale ed economica, in cui ha successo chi si adatta meglio a perpetuare lo strapotere di una ristrettissima oligarchia.
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