La scuola elementare di Haimatsie, nella zona indigena di Jalisco, appare stranamente vuota e silenziosa. I banchi e le sedie, logori e con le gambe arrugginite, riposano appoggiati alle pareti di argilla seccata al sole. Gli unici segni dell’attività scolastica sono alcuni disegni colorati che svolazzano mossi dal vento, con fiori o animali, e una cartina del Messico capovolto, con il Sud girato verso gli Stati Uniti.
In un piccolo cortile di cemento, riscaldato dal sole caldo di settembre, un gruppo di 40 maestri incrocia le braccia: si tratta di uno sciopero pacifico in solidarietà con le manifestazioni che gli insegnanti stanno portando avanti in tutto il Messico per protestare contro la riforma del governo centrale.
Ma la violenza e le marce che da settimane paralizzano Città del Messico qui sembrano fotografie di un mondo lontano. Haimatsie, che nella lingua degli indigeni wixárika significa «sopra le nuvole», dista circa 1.000 chilometri dalla capitale, ed è situata sulla Sierra Madre a più di 2 mila metri di altezza: per arrivarci ci vogliono tre ore di viaggio dal paese più vicino, con un buon fuoristrada.
. Allontanando da un’aula uno degli asini che fino a poco tempo prima ragliava nel cortile, Artemio Solares, maestro elementare, spiega che lo sciopero serve anche per denunciare i problemi che affliggono da anni l’educazione indigena.
Nella regione di Jalisco esistono 115 scuole elementari, dove lavorano 234 insegnanti. Il 40% degli istituti sono edifici prefabbricati, con pareti di legno corroso dal tempo e tetti di lamine metalliche. D’estate sono come forni; nel periodo delle piogge, i cicloni se le portano via.
Il 50% dei maestri non ha seguito un percorso di formazione completo: alcuni non hanno finito le scuole superiori, e per molti di loro la stessa lingua è un forte ostacolo. Molti non parlano lo spagnolo o non sanno scriverlo.
Gli alunni indigeni dello Stato di Jalisco sono 6.667, ma esiste un 15% di bambini che ancora non va scuola. L’etnia wixárika, secondo l’Istituto di statistica nazionale, presenta livelli di analfabetismo del 65% (circa 5 mila persone), e l’80% non ha ricevuto educazione elementare.
Gli ostacoli sono molti. Ci sono bambini che vivono in comunità sperdute, dalle quali per andare a scuola ci vogliono tre ore di cammino, percorrendo sentieri aperti a colpi di machete.
Come a La Manga. Qui il maestro locale, Rafael Cosío, spiega che in alcuni periodi la metà dei suoi alunni non riesce ad arrivare in classe: è impossibile attraversare il fiume in piena che separa la loro casa dall’istituto.
Lui stesso deve camminare un giorno intero per ritornare nella sua comunità di origine: lo fa una volta ogni 15 giorni, perché non ci sono strade carrabili. Negli altri giorni non solo insegna, ma è anche direttore, segretario e bidello. Spazza l’aula e va a prendere con dei secchi l’acqua nel fiume o nel pozzo.
«La mia scuola è molto abbandonata», dice con tristezza a Lettera43.it. «Da sempre abbiamo insistito che si prenda in considerazione il nostro contesto culturale e linguistico, perché qui i bambini imparano in una maniera differente che nelle città».
E tuttavia a livello centrale non si rendono conto del paradosso.
«Non esistono libri di testo nella nostra lingua», spiega il rappresentante sindacale dei maestri indigeni, Minjares Valdez. «Ci chiedono di mandare i documenti e i voti degli alunni via internet, quando qui la Rete è presente solo in due località, quando funziona, e la maggior parte delle comunità non ha neanche la luce».
Il problema, spiega salvando una tortilla dal fuoco nel cortile della scuola di Haimatsie, è culturale. «Non possiamo spiegare molti concetti dello spagnolo, perché sono parte di una cultura diversa dalla nostra».
Alla base di molte difficoltà sta la scelta del Messico di offrire una educazione interculturale bilingue solo alle comunità indigene: una prassi che, al di là dei problemi pratici, ha alimentato l’idea che siano gli indigeni a essere diversi.
«Si sta mettendo in atto un processo di assimilazione, dato che si considera un solo modello culturale, ed è quello spagnolo», conclude amara Martha Vergara, ricercatrice universitaria che lavora con i maestri indigeni.
La riunione in Haimatsie continua languida. I maestri mangiano con le mani tacos e fagioli, appoggiati alle pareti della scuola, per ripararsi dal sole inclemente del pomeriggio. Gli alunni, invece, approfittano dell’inaspettato giorno di vacanza per rincorrere piccoli maialini o far girare un vecchio copertone su quello che dovrebbe essere un campo da calcio – se ci fossero le porte – e che funge anche da piazza della comunità.
Guadalupe De la Cruz, il più anziano dei maestri, con 40 anni di servizio, osserva impassibile i bambini giocare.
«Ogni anno il governo viene e ci chiede di cosa abbiamo bisogno», dice con un’espressione disillusa, di chi, come l’alunno che ha disegnato la cartina che svolazza nell’aria, ha capito che in Messico le cose stanno al rovescio. Capovolte. Però, con un barlume di speranza, conclude: «È il momento buono, dobbiamo approfittare della congiuntura favorevole. È arrivata l’ora di esigere».
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