Che la scuola italiana sia infestata da una invadente burocrazia è cosa che si ripete e si sente spesso, troppo spesso per essere un mero luogo comune. Sembra però opportuno passare dal fastidio personale, dall’idiosincrasia soggettiva che può anche sembrare frutto di snobismo intellettuale, a una riflessione più compiuta sull’ argomento, alla ricerca di elementi più corposi e oggettivi per affrontare, se non dirimere, la questione.
In genere l’ostilità verso questo genere di adempimenti viene motivata col fatto che “toglie tempo” ad altre più pertinenti e gratificanti operazioni. Ma il punto non sembra essere questo, o almeno soltanto questo.
La burocrazia con la sua mole di moduli cartacei ed elettronici è in verità l’antitesi della cultura e della relazione umana, che sono i due cardini sui quali ruota la professione dell’insegnante. Ognuno di noi può verificare questa verità riflettendo prima di tutto su quali fossero, in tempi più o meno lontani, le motivazioni per le quali scelse ciò che poi è diventato. Esclusa ovviamente la sacra auri fames, rimangono per l’appunto una disposizione intima al sapere (in questa o quell’altra disciplina secondo inclinazione) e il desiderio di concorrere alla crescita culturale e umana dei propri simili, che nel momento del reciproco incontro abbisognano di competenti e credibili punti di riferimento.
Nessuno, che si sappia, ha mai desiderato diventare insegnante per il piacere di compilare materialmente il registro, annotando con assiduità e precisione assenze argomenti voti. Se un collega ci confessasse di aver covato questo segreto piacere, lo considereremmo un pervertito, nel senso etimologico di “deviato, allontanato” da ciò che è comunemente percepito come giusto. Perversione della specie feticismo, avente cioè come oggetto qualcosa che di norma si considera al di fuori del campo degli umani piaceri.
Proseguendo nel ragionamento, e nella speranza di toccare finalmente il cuore della questione, proponiamo questa osservazione: la burocrazia scolastica come la si concepisce oggi genera una realtà fittizia (si perdoni l’apparente contraddizione) la quale produce una conseguente forma mentis.
La realtà burocratica è una realtà in cui i diversi termini devono meccanicamente corrispondersi l’uno con l’altro, nel mentre, al di là dell’immoto quadrante del modulo, palpitano sogni, speranze, vita.
Basti pensare alle certificazioni di qualità applicate agli istituti scolastici: nulla dicono davvero di quanto sarebbe utile per capire se una scuola funziona, ossia se gli insegnanti svolgono il loro lavoro con competenza e passione, se gli studenti si impegnano ad apprendere, se il dirigente si comporta con prudente saggezza e assicura ai membri della comunità l’unicuique suum. Niente del genere: non basta la sfilza di storte sillabe e numeri indecifrabili esposta sui siti scolastici, per quanto essa possieda quel qualcosa di scientistico e insieme di arcano che può colpire e indurre l’ingenuo genitore a iscrivere il figlio. “Épater le bourgeois”, diceva Baudelaire.
Schematismo meccanicismo autoreferenzialità: queste le caratteristiche delle incombenze burocratiche in uso. Non per nulla non figura più, nel novero degli attuali incombenti, la “relazione finale” sull’andamento classe. E il motivo è semplice: essa cercava di dare conto di una realtà, e per giunta di una realtà in movimento, ossia di narrare la storia di un piccolo gruppo umano durante un anno di scuola, con le sue inerzie, i suoi progressi, i limiti intrinseci che aveva superato, le lacune colmate e non colmate, le stesse relazioni fra i suoi giovani membri che in positivo o in negativo condizionavano il profitto. Ora, tutto questo contraddice la catafratta schematicità del Modulo (la maiuscola non è casuale) che non può ammettere se non dati oggettivi che si confermano a vicenda.
Per lo stesso motivo sono spariti i giudizi individuali che le Commissioni d’Esame elaboravano per ciascun candidato, e che talora erano dei piccoli saggi di analisi e perfino di introspezione: il protocollo neopositivista di matrice anglosassone sotteso alla nostra modulistica non li ammette più.
Accade talora, è vero, che l’incomprimibile vita si ribella all’inerzia e alla stasi. Si tratta di ribellioni di straforo, per così dire, ma che pure regalano qualche consolazione. Ad esempio noi insegnanti sappiamo tutti a cosa servano le infestanti “griglie di valutazione” che accompagnano la correzione delle prove più importanti: a niente. Tanto è vero che ogni insegnante che vuole fare buon uso del suo intelletto (quasi tutti) si comporta come segue: formula mentalmente una valutazione globale, tenendo conto dei diversi elementi e aspetti della prova, e successivamente suddivide il voto in tanti dati numerici quante sono le voci della griglia. Dalla vita, insomma, alla morte.
Ma sono, dicevamo, ribellioni di straforo, espedienti di sopravvivenza.
La verità è, come dicevamo, che la burocrazia produce una forma mentis burocratica, tanto più ove si consideri il costante travaso di incombenze di tale genere dagli uffici delle segreterie ai docenti, segnatamente ai coordinatori di classe. Ed è una forma mentis che ci deresponsabilizza, perché ci fa concentrare su aspetti puramente formali, su conti che devono tornare. Lo studente – l’essere umano – ne resta fuori.
Non è il modulo, dunque, che si adatta alla vita, ma la vita (scolastica) che oggi si adatta al modulo, diremmo parafrasando Marx, il quale non poteva immaginare che la forma più raffinata di alienazione non è quella da lui indagata nelle pagine del Capitale, ma quella che sarebbe toccata a noi docenti della funestissima scuola-azienda che tutti i governi degli ultimi venti anni hanno contribuito a edificare.
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