Incontriamo l’On. Lorenzo Fioramonti, già Ministro nel Governo Conte 2 dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (ex Miur), che si dimise da Ministro lo scorso dicembre ed è poi transitato nel Gruppo misto della Camera.
On. Fioramonti, lei con il compianto prof. Tullio De Mauro siete stati gli unici due Ministri dimissionari; ambedue con il vostro gesto, sia pur in momenti e contesti politici diversi, avete testimonato che la Scuola in Italia, al di là dei proclami, a differenza di altri Paesi, più che un investimento è considerata una spesa da contenere. Può percorrere le tappe che in pochi mesi lo hanno portato alle dimissioni, peraltro molto criticate dal suo ex partito? Anche perché per alcuni la sua è stata coerenza, per altri defezione.
Mi lusinga essere accostato al grande linguista De Mauro.
Come lui, ritengo che per troppo tempo la Scuola in Italia sia stata considerata dalla politica una realtà di secondo piano. L’ho toccato con mano nei due governi di cui ho fatto parte, il Conte 1 ed il Conte 2. La Scuola veniva sempre messa per ultima. Nei CdM, nelle riunioni, non compariva mai. Senza formazione, senza ricerca, senza istruzione non esiste sviluppo, tantomeno progresso economico. Ho accettato di fare il Ministro affinché della Scuola si facesse il perno di una nuova visione per il futuro del Paese.
Eppure, almeno a parole, tutti hanno sempre ribadito la centralità della scuola…
E’ vero, se ricordate il discorso di insediamento del Presidente del Consiglio, era tutto incentrato sulla scuola e la ricerca. Due temi che sono però subito scomparsi dall’agenda del Governo. Io ho fatto di tutto per farceli tornare, ma alla fine mi sono scontrato con un muro di gomma, sia con i vertici del mio ex partito, sia – e mi duole dirlo – con il Premier.
Un Ministro che non viene ascoltato, si trova spogliato degli strumenti di azione. E deve agire con coerenza. Se altri ministri lo avessero fatto prima di me, non avremmo avuto tagli e riforme scellerate. Oggi ne paghiamo le conseguenze: senza una centralità della scuola, senza maggiori finanziamenti, senza maggiore personale, senza scuole davvero all’altezza, questo Paese non solo si trova privato del suo futuro, ma del suo stesso presente. Con la pandemia in atto, il Governo si sta forse rendendo conto del grave errore commesso nella legge di bilancio passata, al quale sembra che stia cercando di porre rimedio. Spero vivamente che ciò accada, anche se temo possa essere troppo tardi.
La Legge 159 del 30/12/2019 porta in calce la sua firma. Tale Legge di conversione del D.lvo 126/2009 prevede un principio, cioè che le immissioni in ruolo debbano essere effettuate per concorso, considerando terminata la fase transitoria delle sanatorie ex lege. Oltre al concorso ordinario è prevista una procedura straordinaria per titoli ed esami finalizzata all’immissione in ruolo di 24.000 docenti precari nella scuola secondaria, il bando è stato pubblicato la scorsa settimana. Stando a sue recenti dichiarazioni, ora lei (e non solo lei) sarebbe favorevole all’immissione in ruolo di 24.000 precari con una graduatoria per soli titoli. Perché ha cambiato idea?
Non ho assolutamente cambiato idea. Quella legge nasce da un decreto che io ho emanato sulla base di un accordo con le forze sindacali che veniva da mesi e mesi di trattative naufragate nei governi precedenti – già nel Conte 1 – per l’opposizione di buona parte del gruppo parlamentare, soprattutto del Movimento 5 Stelle, a tutta una serie di rivendicazioni del mondo sindacale. Dopo numerosi confronti, anche serrati, siamo riusciti a trovare un punto di equilibrio che ha consentito di bandire altri 50.000 posti per docenti di ruolo nelle scuole italiane, a fronte di 200.000 precari: era essenziale che si riuscisse a mettere il maggior numero di persone di ruolo nel più breve tempo possibile. Anche se avrei voluto molto di più: chiedevo 100.000 posti di ruolo, ma purtroppo le risorse messe a disposizione consentivano solo 50.000 posti.
Senza quel Decreto, oggi, non avremmo neanche quell’accordo. Molti, compresa la stessa Ministra dell’Istruzione, erano contrari fin dall’inizio e fecero fallire quell’accordo più volte. Se fosse stato per loro, non ci sarebbero stati quei 50.000 posti nella scuola. Non solo l’ho fatto, ho trovato la mediazione e siamo riusciti a farlo legiferare, ma ci siamo subito attivati per fare in modo che quei concorsi avvenissero il prima possibile. Anche nella fase finale del mio mandato, ho più volte chiesto al Presidente del Consiglio di proseguire nell’azione amministrativa per poter consentire ai concorsi di essere emanati il prima possibile, entro gennaio. Non sono stato ascoltato.
Come valuta ciò che è accaduto dopo le sue dimissioni?
Dopo che me ne sono andato, il Governo ha deciso addirittura di separare i due Ministeri, provocando un ulteriore ritardo, e quei concorsi non sono stati fatti per mesi. Con il sopraggiungere della pandemia, le condizioni sono cambiate completamente. Sarebbe paradossale condurre un concorso – tra l’altro con una prova a crocette, quindi non il massimo dal punto di vista della selettività e della meritocrazia – in un contesto con circa 80.000/90.000 candidati, in piena estate, in un momento storico in cui ci viene detto che dovremo fare la fila per andare in spiaggia, non potremo prenderci un caffè al bar o fare una cena tra amici.
Quindi, fatico a comprendere come si possa immaginare di organizzare un concorso rapidamente con quasi 80.000 candidati. Quello che noi sosteniamo, visto che le condizioni sono cambiate, è: facciamo come inizialmente si era pensato, ovvero un concorso per titoli e servizio. Le persone sono in cattedra da settembre per condurre un anno di insegnamento, alla fine del quale dovranno sostenere una prova selettiva. Chi non la dovesse superare, non entra in ruolo. Questa opzione era fra quelle già presentate anche nelle fasi iniziali di negoziato con i sindacati, e oggi potrebbe essere attuata. Una cosa è certa: se arriviamo all’ultimo minuto, sarà sempre più complesso gestire tutto. Questo Governo ha già perso 5 mesi in cui quei concorsi si sarebbero già potuti svolgere.
Qual è, secondo lei, il miglior modo per conseguire l’abilitazione all’insegnamento, il concorso per esami e titoli, i PAS, come chiedono i Sindacati e i precari, oppure le lauree abilitanti?
Nella mia visione, il percorso migliore – idealmente parlando – per conseguire un’abilitazione all’insegnamento, è un vero e proprio percorso universitario che abbia anche una parte pratica abilitante, proprio come spesso accade per qualunque categoria, con la previsione di una parte di formazione e una parte di azione pratica. Di questo avrebbe bisogno il nostro Paese. Il mestiere dell’insegnante non è qualcosa che si impara dai libri. Le nozioni si imparano dai libri, la pedagogia si impara dai libri, ma la pratica è altrettanto importante, è un binario parallelo.
Come immagina il rientro a scuola a settembre? L’organico autorizzato dal Mef, se garantisce i posti a fronte di un decremento degli studenti, certamente non potrà essere sufficiente per riaprire le scuole in sicurezza. E allora dove reperire le risorse per un organico di fatto che non riduca l’espressione “eliminazione delle classi pollaio” a una vuota formula propagandistica?
È necessario che questa storia della differenza tra cattedre di fatto e cattedre di diritto venga superata. Non è più possibile immaginare che ogni anno le scuole siano sotto organico strutturale, per poi dover correre ai ripari ogni volta che ci accorgiamo che gli studenti sono più di quelli che ci aspettavamo. Noi ora abbiamo una grande opportunità dal punto di vista demografico: abbiamo un decremento degli studenti a livello nazionale e lo avremo sempre di più nei prossimi anni. Se a questo abbiniamo l’aumento dell’organico e una vera e propria rimodulazione del sistema scolastico – anche a fronte della stessa pandemia – ecco che possiamo avere classi più piccole. A mio parere, dobbiamo infatti riscoprire le scuole di prossimità, piccole scuole in rete in contrapposizione ai grandi plessi con oltre 1.000/1.500 studenti. Dunque, con più scuole di vicinato che abbiano un numero inferiore di studenti (sia all’interno di ogni classe, sia in generale nel plesso scolastico) e con un numero leggermente superiore di insegnanti rispetto a quello che abbiamo oggi, noi potremmo permetterci di avere delle classi da 15-20 studenti massimo.
Non solo potremmo superare di gran lunga le classi pollaio, ma avremmo finalmente l’opportunità di portare le nostre scuole al livello europeo, sia dal punto di vista della pedagogia – rispetto alla quale già molte di loro sono altamente innovative – sia relativamente alle strutture e alle relazioni interpersonali. Tutto ciò sarà possibile se utilizziamo questo calo demografico in maniera intelligente, solo allora riusciremo ad avere scuole di qualità. Il rischio è che, a fronte del suddetto calo, si continui a investire sempre meno nella scuola, pensando che tanto i bisogni saranno sempre minori.
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