Sull’Huffington Post, Mila Spicola, docente ed esponente del Partito Democratico, scrive riguardo l’alternanza scuola-lavoro.
Ecco il suo intervento su questa importante innovazione didattica.
L’alternanza scuola-lavoro è una metodologia didattica per maturare competenze trasversali (così definita nel documento nella guida operativa per la scuola sull’alternanza scuola lavoro).
Ma che cos’è, a che serve, concretamente in che consiste? Mettetevi comodi, vi ruberò un po’ di tempo. Concedetemelo, parlerò di studenti e di questioni complesse. Un respiro e via.
Molti di voi avranno sentito parlare di competenze per il 21 secolo, di strategia per le competenze, di scuola delle competenze, di didattica delle competenze, di competenze professionali, etc..etc..etc.
L’Italia è inserita in una strategia delle competenze dagli anni 2000, il nostro paese ha recepito nel 2006 una direttiva europea sulle competenze di base da formare a scuola (la trovate qui) lungo tutto il percorso formativo, primario, secondario, terziario, e in ogni genere di percorso e su cui vige l’obbligo di certificazione. In Italia le competenze di base si chiamano “chiave e di cittadinanza”, così recepite nel 2007 attraverso un dm. Questa strategia implica un orizzonte epistemologico, pedagogico e didattico diverso e dunque una didattica diversa, ma, nonostante siano trascorsi dieci anni ancora arranchiamo a raggiungere una scuola che abbia adeguato didattica, metodologie e valutazione al mandato europeo e al decreto del 2007. Un altro dei meriti del dibattito sull’alternanza scuola lavoro è quello di aver riproposto alcuni nodi metodologici e didattici proprio al riguardo, poco affrontati nel ciclo delle scuole superiori. Questa la premessa, svolgimento.
La prendo un po’ larga e comprenderete il perché, se volete affrontare una questione dovete approfondirla e governarla, sennò è chiacchiera. Per comprendere meglio dobbiamo fare un approfondimento sul tema delle conoscenze e delle competenze. Chiedo la vostra pazienza.
Terminologia. Conoscenze o Competenze.
Distinguiamo conoscenze (saperi teorici) e competenze (la padronanza tale di una conoscenza da farne azione).
È errato dunque considerarle alternative tra loro: la conoscenza è precondizione della competenza. Negli ultimi 40 anni si sono succeduti dibattiti tra coloro che erano per una scuola esclusiva delle conoscenze(il cognitivismo: la scuola deve fornire solo saperi e poi sarà la singola persona a rielaborarli e farne proprietà e capacità personali) e quelli che hanno iniziato a parlare di competenze (le teorie del moderno socio costruttivismo, nella ricerca anglosassone sono le teorie sulle 3R o le 4C, sono gli studi e sperimentazioni sulla didattica e le metodologie più adatte per maturarle – si va dal linking learning dell’Australia, alla didattica per argomenti della Finlandia, alle riforme canadesi sulle metodologie del recupero, senza dimenticare che il nostro Metodo Montessori è stato l’antesignano di tante di queste evoluzioni teoriche e pratiche di metodologia e pedagogia). Quasi tutti gli indirizzi teorici attuali indicano nuovi obiettivi nei sistemi educativi che sono sempre più orientati verso la necessità di maturare, attraverso i saperi, le capacità per applicare quei saperi e, viceversa, maturar meglio i saperi attraverso modelli di didattica attiva “esperienziale”, “cooperativa” una didattica che coltiva “il fare per arrivare all’essere”; che poi tanto innovativa non sarebbe, visto che sono varianti aggiornate del metodo montessoriano.
Si sono affermate le seconde teorie, perché le metodologie cognitiviste hanno dimostrato e rivelano, a chi le utilizza in modo esclusivo ancora oggi, tutti i loro limiti: didattica tradizionale, lezioni frontali, programmi, tempi e spazi rigidi, valutazione sommativa non migliorano gli apprendimenti, anzi, provocano demotivazione intrinseca degli studenti, rigidità cognitiva, nozionismo, disagi dell’apprendimento dovuti a errori di valutazione, errori di programmazione, indicano deficit di relazione educativa che possono sfociare da un lato verso l’autoritarismo e dall’altra al lassimo.
Cosa significa? Significa che è necessario metter in campo una modalità nuova di insegnamento e di apprendimento che prevede l’esperienza, l’agire. E dunque puntare sulle le relazioni che conseguono alle azioni, sono precise metodologie didattiche che favoriscono non solo le competenze trasversali ma anche gli apprendimenti teorici. Prevedono la condivisione, la creazione, la produzione, uso consapevole delle didattiche digitali, comportano cambi di paradigmi epistemologici che riflettono maggiormente l’oggi, che meglio si adattano agli ambienti e ai linguaggi cognitivi odierni. Fondamentalmente sono metodologie che sviluppano le capacità trasversali della persona, ovvero appunto competenze, nello stesso istante in cui apprende. Faccio l’esempio con le due competenze base più note:
Una cosa è saper leggere (è una conoscenza, leggi delle cose, le impari), un’altra comprendere a fondo quello che leggi, rielaborarlo, saperne dire, farla tua per una finalità prefissata e concreta (è la competenza comprensione del testo). Una cosa è conoscere le tabelline o il teorema di Pitagora, una cosa è ragionare logicamente e matematicamente per risolvere un problema concreto con le tabelline o con il teorema di Pitagora. Nella didattica delle competenze si chiamano “compiti di realtà”, cioè esperienze reali con cui “esperire” il sapere. Senza la precondizione del sapere dunque non si pone in essere un compito di realtà (segnate in rosso).
Abbiamo diversi livelli di competenze:
1. Le competenze di base (o di cittadinanza);
2. Le competenze molli (soft skills);
3. Le competenze dure (high/hard o professional skills);
In altri paesi possiamo trovare terminologie, livelli diversi ma la sostanza non cambia.
I due documenti, la direttive europea e la sua recezione italiana, recano terminologie diverse, per quel gusto tutto italiano della complicazione anche quando non è necessaria, ma indicano sostanzialmente cose simili.
Ogni paese sta applicando strategie pedagogico-didattiche nelle scuole per implementare le competenze attraverso didattiche delle competenze, con formazione specifica dei docenti, con metodo e consapevolezza (segnate in rosso). Le più citate sono quelle finlandesi (perché da anni risultano primi nelle rilevazioni internazionali Ocse Pisa nelle due competenze di base più note, comprensione del testo e ragionamento logico matematico). Ma c’è anche il Canada, anch’esso in cima alle rilevazioni, con la sua organizzazione scolastica che investe sul recupero degli ultimi. Oppure l’Australia col linking learning, anch’essa in cima, altro modo per indicare la didattica delle competenze o per competenze.
Per chi volesse capirne di più e approfondire la faccenda: cosa sono, come si formano, come si valutano le competenze di base, rimando a un compendio molto utile e chiaro che consiglio a tutti di leggere, non solo ai docenti, sennò ogni discussione diventa difficile a causa della babele lessicale in cui ci siamo infilati.
Il compendio è a opera di uno studioso italiano della materia, Mario Castoldi (di cui trovate in rete la sua ampia bibliografia sul tema), riguarda essenzialmente le competenze di base, ma sono considerazioni, metodologie e codici estendibili alle competenze in generale. Lo trovate qui, consiglio a tutti di leggerlo per bene, soprattutto i docenti, ci sono utili indicazioni didattiche, anche per le griglie di valutazione delle competenze, vero vulnus in questo momento di tutta la faccenda, presenta utili esempi, anche per comprendere cosa sono questi “compiti di realtà“. C’è anche tutto il lavoro sull’innovazione didattica e la valutazione delle competenze compiuto da Dianora Bardi e sulla loro valutazione con piattaforme digitali di condivisione tra docenti.
I diversi livelli di competenze — di base, molli (o soft skills), professionali (o high skills) – , sono declinati nei vari paesi, o dagli organismi internazionali, o nella ricerca educativa, in vario modo e in varie tabelle, tra cui quella dell’Ocse sulle competenze necessarie per il 21 secolo, è la più nota e diffusa.
La tabella presenta raccolte insieme sia le competenze di base, dalla 1 alla 6, sia le competenze molli, o soft skills, dalla 7 alla 16.
Leggendo una ad una queste competenze vi riconosciamo:
Un tempo, in un mondo stabile, certo, con confini limitati e fissi, i sistemi formativi potevano occuparsi meno di competenze di base o di soft skills, le competenze potevano maturarsi in autonomia lungo l’arco della vita, o non maturarsi: era un mondo semplice. Oggi non è più così: un mondo mutevole aggredito da flussi informativi abnormi fanno sì che i saperi siano precondizione, ma diventano ancora più importanti le capacità di “processare i saperi”. Non solo, le moderne scienze cognitive e neurali hanno verificato intuizioni di pedagoghi d’inizio ‘900 che indicavano nel fare e nell’agire una metodologia didattica positiva per migliorare anche gli apprendimenti teorici. Per cui coloro che sono preoccupati sulla possibile fine del sapere dovrebbero rassicurarsi, perchè in realtà è una messa in sicurezza: gli studenti studiano e imparano meglio attraverso una didattica per competenze, come confermano decine di indagini e le stesse comparazioni internazionali.
Sono concetti e metodologie acquisiti nella pratica quotidiana dell’insegnamento nel ciclo primario della scuola italiana, mentre devono ancora far parte del bagaglio dei docenti delle scuole secondarie superiori di primo e di secondo grado, nonostante le indicazioni nazionali dei curriculi si esprimano chiaramente in tal senso, e non è un caso: è una categoria di docenti, quella del ciclo secondario e terziario, che fino ad oggi non ha incontrato nei loro percorsi studi di pedagogia, didattica, psicologia cognitiva
Agli studi citati sopra, di Montessori o Dewey, si aggiungono le ricerche di Piaget, le riflessioni sulle intelligenze multiple, quelle sugli apprendimenti cooperativi, le scoperte delle neuroscienze, quelle dell’epigenetica e altri ancora che convergono tutte in un inquadramento e superamento del cognitivismo verso il costruttivismo e verso la consapevolezza degli influssi e interdipendenze tra apprendimenti e comportamento, ambiente, pensare e fare.
Tutti questi processi della ricerca educativa ha condotto a cambi di metodologie e a innovazioni didattiche, a sperimentazioni e modelli nuovi, presenti anche nel nostro sistema, in forma quasi carsica, che non hanno fatto sistema, sia per l’assenza di una formazione di sistema dei docenti sia per la scarsa circolazione delle esperienze, un altro dei punti deboli del nostro sistema, unito al buco nero della formazione in servizio fatta in modo individuale e discrezionale, prima che tornasse a essere un obbligo della funzione docente; più frequentemente si è trattato di nuove esperienze che ciascun docente ha modulato in base alle proprie personali domande su come raggiungere obiettivi didattici prefissati di apprendimento senza farne bagaglio comune.
Torniamo alle competenze. Oggi, in un mondo complicato quale quello in cui stiamo vivendo, la complessità, la flessibilità, il carico informativo, le incertezze e tutte le cose che diciamo e ci ripetiamo, obbligano ciascuno a maturare competenze chiave e competenze molli: sia per la vita, che per il lavoro. Sono cioè le precondizioni per la vita. E per il lavoro. Ma soprattutto per la vita e la comprensione del mondo. Non sono dunque “addestramento al lavoro” ma formazione vera e propria, inserita in obiettivi didattici nazionali ed extra nazionali.
Le high skills, le competenze professionali, sono altra cosa, nella tabella di sopra infatti non ci sono, perchè la tabella riguarda esclusivamente obiettivi formativi dei sistemi d’istruzione e le competenze professionali non rientrano nel sistema dell’istruzione, con l’eccezione dei percorsi tecnici professionali, che però devono comunque assolvere alla formazione di competenze di base e molli.
Anche sulle hight skills, sulla nostra capacità di formarle e aggiornarle in un quadro economico e produttivo diverso e bisognoso di competenze professionali aggiornate nei nuovi ambiti e sui ritardi nel rispondere ai bisogni del paese anche nel mondo della formazione professionale e universitaria, anche queste spesso orientate solo verso i saperi teorici, ci sarebbe tanto da dire ma rimaniamo sulle soft skills.
Una cosa voglio che sia chiara: soft skills e high/hard skills sono competenze diverse. Come altro ancora sono le abilità. Posso acquisire abilità senza necessariamente avere conoscenza, posso essere addestrato (uso il verbo non a caso) per acquisire un’abilità, non per maturare una competenza, e non posso acquisire competenza se non ho conoscenza. Lo preciso perchè spesso competenze e abilità vengono confuse nel dibattito a cui abbiamo assistito o partecipato in questi giorni (da tutti, soprattutto dalle aziende di accoglienza, ma anche dal mondo formativo, come da gran parte dell’opinione pubblica).
L’alternanza scuola lavoro
Il nostro sistema formativo ha avuto una debolezza che si è tramutata in ritardo: matura molto bene conoscenze (se poi lo faccia bene sempre è altro discorso), abbiamo iniziato a maturare da una decina di anni le competenze di base, nel ciclo primario, matura conoscenze e competenze professionali nel ciclo terziario (anche qui se lo faccia bene sempre è altro discorso), mentre abbiamo lasciato completamente scoperto e al di fuori dal mondo formativo l’area delle soft skills.
Ecco, sarebbe l’ora di occupare quell’area e in modo sensato e didatticamente inteso. Credo che quello sia il posto dell’alternanza scuola lavoro, se deve essere, com’è giusto che sia, una metodologia didattica e non un addestramento o un tirocinio professionale.
Se avete letto fino in fondo il documento di Castoldi, avete appreso che le competenze si maturano con precise strategie didattiche progettate e programmate, attraverso esperienze reali, compiti reali, non simulati.
E allora, possiamo definire l’alternanza scuola lavoro come un laboratorio di esperienze reali e non simulate per maturare le soft skills in modo programmato e consapevole da scuola e azienda? Sì.
Sono importantissime? Sì. Se ne deve occupare la scuola? Sì.
Devono saperlo e averne scienza e coscienza le strutture che accolgono? Sì.
È stata raccontata in questo modo? Mi pare di capire che no, mancano dei pezzi.
È stata applicata in questo modo? Alcune volte sì, troppe volte no.
L’alternanza può essere considerata un tirocinio, uno stage, un apprendistato? No, perché è una metodologia didattica per formare soft skills e non hard skills.
Si possono sovrapporre alternanza e apprendistato? Non saprei, bisognerebbe sperimentare, soprattutto nei percorsi tecnico-professionali, ma sicuramente non assimilare.
È solo perchè “le scuole non lo sanno fare e le aziende nemmeno” che si sono verificati dei casi negativi? No. E quando lo hanno fatto bene, siamo sicuri che abbiano consapevolmente progettato, programmato, maturato e valutato soft skills? O se ne sono uscite genericamente con un “ottima esperienza, il ragazzo ha svolto bene i suoi compiti ed è molto soddisfatto perchè ha fatto cose fighissime”?
Se andiamo a leggere il documento prodotto dal Ministero e inviato alle scuole, tra le finalità dell’alternanza compare un “maturare le competenze trasversali”; a mio parere è troppo generico. Le competenze sono tutte trasversali, anche leggere e scrivere. Non basta. In base a tutto quello specificato sopra, comprenderete che ai docenti e alle scuole, come anche alle aziende di accoglienza, serve avere un supplemento di informazione, di formazione, di conoscenza in più. Tutor nella struttura in accoglienza, docenti del consiglio di classe e tutor della scuola avrebbero bisogno di approfondimenti teorici e didattici e docimologici su quali competenze e come e perché. E non voglio entrare nella complessità organizzativa.
È tra le cose che chiedono gli studenti. Una consapevolezza didattica e un progetto formativo chiaramente e specificatamente mirato sia nella progettazione, che nello svolgimento, che nella valutazione. Integrato alla didattica della classe (che non vuol dire necessariamente affine al percorso di studi). E io con loro.
Si tratta di un’innovazione profonda che avrebbe bisogno di un coinvolgimento diverso della classe docente, un coinvolgimento di senso e che avrebbe forse necessitato di una sperimentazione. Informare e dimostrare, o meglio, farlo dimostrare al docente, che una certa metodologia didattica, e l’alternanza lo è, funziona meglio di un’altra, e chiarire l’obiettivo didattico in modo approfondito. È questo ciò che rende più significativo il lavoro del docente, ma rende anche più efficace il raggiungimento dell’obiettivo, una volta che anche questo si è chiarito bene.
L’alternanza dunque deve essere spiegata e svolta, secondo me, come un progetto programmato dai docenti (ai quali si spieghi che è questo) e da una struttura di accoglienza (alla quale si spieghi che è questo) che abbia un obiettivo didattico chiaro: formare e sperimentare le soft skills, non altre.
Non basta la carta dei diritti degli studenti in alternanza e nemmeno l’indicazione generica.
Serve un decreto di definizione e individuazione delle soft skills che il percorso di alternanza deve progettare, osservare e valutare. Serve una formazione specifica.
In questo modo i docenti lo comprendono, ma anche gli studenti.
Va preso l’elenco delle soft skills, indicandole col ditino una a una (senso critico, creatività, leadership, intraprendenza, etc..etc..quelle),va costituito comitato scientifico, facendo lavorare insieme ricerca educativa, scuole e imprese per definirle meglio, per stabilire un curriculo e dei livelli. E si deve specificare per una buona volta che l’obiettivo sono quelle lì, non delle “competenze trasversali” genericamente intese. Ma quelle lì.
Dunque, è solo in questo senso che l’alternanza non è un lavoro, non è apprendistato, non è stage, perché non è finalizzato a formare professional skills ma soft skills. Se non lo si precisa diventa tutto ciò che gli studenti lamentano.
Non deve essere pagato e non prevede sfruttamento perché è attività didattica. Che va valutata, scusate se lo ripeto, se avete dato un’occhiata al documento di Castoldi, vedrete quanta parte ha la valutazione delle competenze, nella definizione poi delle metodologie. E invece me la voglio vedere tutta cosa uscirà dai primi documenti di valutazione su cosa, sapi iddu.
L’eventuale attività svolta — il lavoro — è il mezzo e non il fine di un progetto didattico stabilito a monte.
Esempio: se l’obiettivo didattico è implementare lo spirito di collaborazione, l’adattabilità e la capacità di risolvere dei problemi reali di un liceale molto bravo ma rigido, bloccato e con problemi di socialità, cambia poco se il mezzo sia andare a far parte di un gruppo di ragazzi che devono cucinare in una mensa, giusto? C’entra poco l’affinità col percorso di studio. Il fine è imparare a cucinare? Può darsi che imparerà anche quello, ma il fine non è l’abilità dell’attività che si va a fare, il fine è un altro e la valutazione sarà su quell’altro fine.
Quello studente può anche organizzare visite guidate per studenti delle elementari e gestire tutta l’attività, ma il fine non è la conoscenza approfondita del sito che andrà a far visitare perché lui è bravo in storia dell’arte, no, bensì il governare una situazione in cui deve rapportarsi con altri, averne responsabilità e gestirla in modo flessibile. Quello studente, ancora, potrà persino andare a pulire stalle nei campi di lavoro di Libera, se il suo progetto è la gestione di un’azienda agricola per stimolare la leadership, piuttosto che l’autonomia, piuttosto che il collaborative problem solving. E Virgilio non se ne dorrà, sub tegmine fagi.
Nello stesso tempo non vedo perché una studentessa dell’Istituto Tecnico Industriale non debba poter sviluppare le sue soft skills al Maxxi. Flessibilità, intraprendenza, spirito di adattamento.
Dunque l’ambito o l’attività, sono il mezzo. Il fine è maturare la competenza che i docenti (i docenti, il consiglio di classe e l’impresa di accoglienza) avranno programmato consapevolmente insieme.
FAQ
1. Si può parlare di sfruttamento? Se l’alternanza la si intende così no, perché non è un lavoro, non è un apprendistato, non è uno stage, è un progetto didattico, una metodologia didattica integrata, come lo è una visita guidata. Ma lo devono avere chiaro tutti, studenti, docenti e aziende che accolgono. Sennò è tempo perso.
2. Serve utilizzare e definire l’alternanza scuola lavoro come laboratorio di soft skills? Sì, perché sono precondizioni per la vita e per le competenze professionali che sennò non si ritroveranno. Non sono strumenti di abilità per un lavoro, a breve termine, ma di agibilità al lavoro, sulla persona, a lungo termine, che rimarranno tali in un mondo economico, professionale, industriale che muterà sempre più velocemente.
3. Il Miur ha compreso che la via per far funzionare questa cosa è un enorme supplemento di senso pedagogico e di formazione e sperimentazione di tutti gli attori in campo? Non lo so. Perché anche buona parte degli “uffici ministeriali” sono ancora legati solo a una scuola dei saperi astratti e non sa di cosa parliamo. Continuano a parlare in forma più che superficiale di “nuove competenze”. Se va bene. Se va male invece tutta la faccenda viene liquidata o ad altre agenzie, del lavoro, ma se è metodologia didattica? Osservata dal Miur nel suo aspetto organizzativo e burocratico, che è pure importante, ma che al Miur prevalga la burocrazia sulla pedagogia è una delle grandi questioni della nostra scuola.
4. I docenti le sanno queste cose? Alcuni sì e alcuni no, molti si sono confusi ancor di più coi documenti del Miur.
5. I docenti delle scuole superiori, specie dei licei, hanno motivo di ritrovarsi presi dai turchi specialmente se i documenti del Miur sono assai generici, parlano genericamente di competenze trasversali e la maggior parte dei docenti non ha compreso quali epperò le dovrebbero valutare? Sì.
I più, dentro e fuori le scuole, confondono soft skills, abilità e competenze professionali (del resto le confondono anche al Miur…).
Scusate se mi ripeto molte volte, perché sono equivoci ricorrenti. Anche quando le esperienze sono molto positive.
Perché se viene considerata un’esperienza di lavoro e non un’esperienza didattica la domanda diventa “Che gli faccio fare a ‘sto ragazzo?” . Non : “Deve raggiungere queste due soft skills, imparare le lingue e maturare doti di leadership, la cosa che gli faccio fare serve a questo“.
Anche fare il coordinatore di una squadra di friggitori in un McDonald è utile in quel caso. Ma se non hanno chiaro l’obiettivo didattico è ovvio che si affannano tutti a cercare, a trovare cose che possano essere affini per percorso scolastico e a ritenere che “Funziona per gli istituti professionali e non per i licei”.
Verso l’automazione
Aggiungo una cosa: le macchine potranno col tempo svolgere e avere high skills, se già non lo fanno, ma le soft skills sono quelle che attengono solo all’uomo, alla sua identità, nessuna macchina può sostituirle. È importante conoscerle e capire come formarle? Sì. È importante che lo facciano e sappiano fare le scuole perché di formazione di qualità importanti per la persona si tratta e la Scuola questo fa? Sì. È importante non confondere le cose e i livelli e affrontare con maggiore approfondimento le premesse che portano all’alternanza? Sì. È importante chiarire a chi parla di “queste sono strategie che portano dritto all’automazione” che è esattamente l’opposto, esattamente l’opposto? Sì.
Riassumendo:
Poiché le sperimentazioni — e l’alternanza per adesso lo è — si conducono in orizzontale con chi deve portarle avanti, in modo che costoro applichino operativamente, adeguino, migliorino, raddrizzino, si interroghino e dunque portino avanti le riforme perchè si ritrovano in esse facendole proprie, potremmo riformulare dei documenti di obiettivi diretti ai docenti, proporre laboratori formativi e con-formativi con le scuole sulle competenze e proponendo intanto una progressione chiara e semplice per livelli di competenze da raggiungere e attraverso quali mezzi:
1 livello: ciclo primario (da zero anni alle medie) ovvero saperi e competenze di base che poi implementi per tutta la vita / mezzo: didattica delle competenze;
2 livello: ciclo secondario (scuole superiori) ovvero saperi e competenze trasversali «morbide» (soft skills)/ mezzo: alternanza scuola lavoro;
3 livello: ciclo terziario (its e università) ovvero saperi e competenze professionali «dure» (high skills) mezzo: stage/tirocinio e apprendistato di alto livello.
Ciascun gradino è precondizione per l’altro.
Le conoscenze che partita giocano?
Sono i mattoni ineludibili, guai a non comprenderlo. Senza saperi non ci sono competenze. E in questo entra in campo il nostro paese. Noi dobbiamo mantenere e tenere la barra dritta sul grado di approfondimento dei nostri saperi, del nostro bagaglio cognitivo, è la nostra specificità, la nostra marcia in più (non solo per i liceali), ma dobbiamo coltivare questa specificità insieme alle competenze e attraverso una didattica delle competenze. Tra l’altro una didattica costruita sulla relazione educativa, e dunque sull’agire, se fatta bene e consapevolmente, risolve molte delle “domande” del docente, migliora le relazioni e influisce positivamente sugli apprendimenti, non solo, reca con sé tutta la questione innovazione didattica, digitale, e financo quella relazionale, che, voglio dire, da sottovalutare non è.
Però.
C’è un però, tutto questo si matura dal basso, dalla domanda del singolo docente: a che serve questa didattica? Quale l’obiettivo? Quale metodologia? Proviamola. Sennò finisce per essere un altro esempio di un dirigismo non condiviso perché non preceduto da una adeguata condivisione e formazione.
Le politiche attive per il lavoro e per la vita, che per chi scrive sono la stessa cosa, ce le giochiamo con queste cose. Dobbiamo lavorare in chiarezza e sinergia e, per lavorare in sinergia, tutti gli attori e gli ambiti di questa partita devono parlare una lingua comune, con una strategia condivisa, senza confondere lessico e dunque sostanza, livelli, mezzi e fini.
Quando mi intrappolo in discussioni infinite sul valore dell’alternanza scuola lavoro, mi verrebbe da ricordarlo, questo “sentimento sufficiente di una propria indiscussa superiorità” propugnato da alcuni del lavorio intellettuale rispetto a quello manuale. Come se le due cose potessero viaggiare separate in una persona autenticamente di sinistra. O in una persona autenticamente progressista. Perché, nel rifiuto dell’alternanza scuola lavoro, spesso riconosco più che un rifiuto dello sfruttamento del lavoro, un rifiuto gentiliano del lavoro manuale stesso, del fare (la frase siamo studenti non operai, qualunque cosa voglia intendere, suona male, malissimo, l’elitarismo non è manco dietro l’angolo) ma, soprattutto della cultura ad esso connessa, lontanissima dalle culture autenticamente di sinistra.
Sempre Gramsci scrive nei Quaderni: “La scuola unica, intellettuale e manuale, ha anche questo vantaggio che pone contemporaneamente il bambino con la storia umana e con la storia delle “cose” sotto il controllo del maestro“.
Credo che ci sia tanta roba da recuperare e pensar meglio, non solo come fare l’alternanza, ma come ripensare il pensiero sul lavoro e la didattica del pensiero sul lavoro. Va fatto a scuola questo ripensamento? Anche.
Intellettuale e manuale, sono studente e sono operaio, perchè entrambe le condizioni, se didatticamente indirizzate, formano e performano una Repubblica fondata sul lavoro.
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