Intanto, e subito subito, sono 50 milioni gli euro che il cosiddetto “governo del cambiamento” ha tolto alla scuola: se poi derivano dal ridimensionamento delle ore obbligatorie di alternanza scuola lavoro è discorso a parte, ma comunque sono stati scippati dalla casse dell’istruzione. Ci viene dunque il sospetto che la manovra sia stata fatta, più che per motivi didattici e di organizzazione della scuola, a fini di cassa.
Fra l’altro alla nostra scuola si continua a dare, rispetto alla media europea, quattro punti di Pil in meno, finendo così al penultimo posto nell’area Ocse, mentre solo un manager italiano su quattro ha una laurea in contrapposizione col resto del continente dove la media è del 54%.
Di scuola dunque, nell’era dello sbandierato cambiamento, si parla solo per i regolamenti come quello di Lodi -scrive Linkiesta.it– che discriminano i bambini stranieri, i cui genitori se non provano di essere nullatenenti, anche se provengono da Paesi che non possono certificarlo, sono costretti a pagare la tariffa massima di mense e scuolabus. O di telecamere anti-spacciatori fuori dai plessi scolastici. Per il sapere, nulla totale.
Eppure si potrebbe creare un fondo per abbassare le tasse universitarie più alte d’Europa, perlomeno ai cittadini meno abbienti, per far tornare la scuola a essere un ascensore sociale funzionante. O anche un piano per la formazione continua, in cui oggi sono coinvolti solo 8 italiani adulti su 100, peraltro molto male, contro il 18,8% di adulti francesi che aggiornano le loro competenze per far fronte alla rivoluzione digitale e alle nuove competenze necessarie per non uscire dal mercato del lavoro. O ancora un piano per aumentare i fondi alla ricerca di base e per agevolare il trasferimento tecnologico dei saperi accademici in contesti imprenditoriali.
Però nelle pensioni- chiosa Linkiesta.it– si mettono tre volte quel che si spende per l’istruzione e ora altri 16 miliardi, ma zero sull’istruzione.
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