Dopo la sua nomina Ministro dell’Istruzione (1° giugno), di Marco Bussetti si è parlato molto: con parole di elogio da parte della Destra leghista e cattolica, di biasimo da chi ha il cuore a Sinistra. Nell’indifferenza della maggior parte dei media, come al solito poco o nulla interessati alla Scuola (se non quando si tratta di denigrare quella pubblica).
Classe 1962, lombardo DOC, cattolico, laureato con lode in “Scienze e Tecniche delle Attività Motorie Preventive e Adattate” all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; ex docente di educazione fisica nelle Scuole Medie, ex dirigente e allenatore della Pallacanestro Gallaratese, dirigente (dal 2014) dell’Ufficio X dell’USR Lombardia. Ha insegnato legislazione scolastica all’Università Cattolica di Milano e di Pavia. Ha un titolo polivalente di specializzazione per soggetti portatori di handicap.
Tecnicamente, insomma, “ha i numeri” per il posto che ricopre: di scuola se ne intende (a differenza di qualche suo predecessore). E già, in un mese, è riuscito più volte far parlare di sé.
A noi i giudizi di valore non piacciono, e preferiamo badare ai fatti prima di giudicare. Certo è però che, se il neoministro volesse davvero lasciare un’impronta indelebile e raddrizzare il timone della Scuola italiana—“nave senza nocchiere in gran tempesta” da un quarto di secolo—dovrebbe varare alcuni provvedimenti immediati.
Prima di tutto, dovrebbe dimostrare di voler davvero innalzare gli stipendi dei docenti e ridar loro la dignità perduta. Come? Producendo immediatamente un disegno di legge per sganciare le Scuole dal campo di applicazione del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29: quello che (pochi lo sanno) inserì i docenti delle Scuole (ma non gli universitari) nel Pubblico Impiego, privatizzandone il rapporto di lavoro, sottoponendoli al Preside “datore di lavoro”, e legandone gli stipendi ad un ossimorico “tasso di inflazione programmata” che non ne permette l’incremento in relazione all’inflazione reale. Fatto ciò, verrebbero inoltre a cadere le basi giuridiche dell’autonomia scolastica e della “buona Scuola” renziana, il cui superamento verrebbe da sé.
Seconda azione forte ed incisiva che ci permettiamo di suggerire al Ministro: garantire lo svolgimento delle elezioni del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (CSPI) alla sua scadenza naturale, evitando che vengano omesse (com’è accaduto dal 1999 al 2015 per opera di governi di ogni colore!).
Terza prova di coraggio: presentare un disegno di legge per basare la “maggiore rappresentatività” sindacale nel comparto Scuola non più sulle elezioni RSU (nelle quali non è consentito presentare liste nazionali, né regionali, né provinciali, ma solo su singola scuola), bensì su elezioni di categoria professionale (quali, appunto, quelle del CSPI), con liste nazionali per tutti i sindacati e diritto per tutti di assemblea in orario di servizio.
Ciò consentirebbe anche ai sindacati “minori” di competere coi “maggiori” ad armi pari (proprio come in quei Paesi in cui—pensate un po’—la democrazia sindacale esiste veramente ed è davvero effettiva!). Inoltre permetterebbe ai lavoratori della Scuola (docenti ed ATA) di capire davvero le differenze tra i sindacati, nonché la loro effettiva rappresentatività (facendosi anche un’idea di cosa significhi realmente l’espressione “democrazia sindacale”).
Certo, per prendere iniziative simili, di coraggio ce ne vuole. Il docente italiano medio non se ne rende conto: egli pensa che “tanto i sindacati sono tutti uguali”, e quindi di sindacalismo non si occupa proprio. Così non si accorge di quanto il sistema sindacale sia stato architettato per impedire un ricambio della rappresentanza sindacale stessa: ossia di quelle forze sindacali, spesso legate ad interessi di tipo partitico, che vanno a contrattare col Governo le condizioni di lavoro e di retribuzione di un milione di lavoratori della Scuola. Coi bei risultati che sappiamo.
Ebbene, per affrontare questa situazione il Ministro Bussetti deve tirar fuori il proprio ardimento. Infatti si metterebbe contro una vera superpotenza: quei tre grandi sindacati cui sono iscritti più di dodici milioni tra pensionati e lavoratori italiani; e che incassano, solo dalle tessere annuali, un miliardo e duecento milioni di euro. E che sono finanziati dallo Stato in modo diretto e indiretto: ossia attraverso il pagamento dei distaccati, i fondi ai patronati (430 milioni annui) e ai CAF (170 milioni), i quali hanno bilanci separati da quelli dei sindacati stessi (pur dipendendo dai medesimi).
Scrive il Corriere della Sera l’8 maggio 2014: «Cgil, Cisl e Uil hanno una grande ricchezza patrimoniale: circa 3 mila immobili la Cgil, 5 mila la Cisl e un numero imprecisato la Uil. Tutto grazie una legge (la 902 del 1977) che attribuì loro gratuitamente il patrimonio dei disciolti sindacati fascisti».
Coraggio, dunque, Ministro! Dal “Governo del cambiamento”, non possiamo non aspettarci almeno quello, affinché tutto cominci davvero a cambiare.
Alvaro Belardinelli (esecutivo nazionale Unicobas)
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