“Per la prima volta non siamo più considerati un nemico”, ma questa vittoria dello Stato “rischia di essere depotenziata dalla riforma della giustizia minorile al vaglio del Parlamento”: la denuncia arriva dal presidente del Tribunale per i minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella.
“Noi giudici minorili di Reggio Calabria abbiamo deciso, nel 2012, di mutare orientamento giurisprudenziale e provare a censurare il modello educativo mafioso limitando la responsabilità genitoriale e, negli episodi più gravi, allontanando i minori dalle famiglie”. Di Bella è stanco di vedere alla sbarra i figli dei boss processati negli anni Novanta, amara conferma di una eredità criminale difficile da spezzare.
“In quattro anni sono 30 i casi di cui ci siamo occupati, 25 sono gli allontanamenti, tra loro anche alcune ragazze”. Numeri contenuti, a dimostrare una scelta ragionata e sofferta. “Nessuna ‘confisca’, ‘deportazione’, ‘epurazione etnica’ o logica punitiva come ci hanno contestato. Non siamo avventurieri del diritto, ci muoviamo nell’ambito di un solido quadro normativo, e l’obiettivo è la tutela del minore”.
Il ragazzo è affidato a comunità o case famiglia, “torna a scuola, svolge attività di educazione alla legalità con psicologi, educatori e volontari di associazioni come Libera e Addiopizzo, si esprime liberamente. Quando si avvicina alla maggiore età è lui che ci chiede aiuto per non tornare più in Calabria”. Nell’ultimo anno, svela “sono sempre più le madri – alcune hanno iniziato percorsi di collaborazione con la giustizia, altre arrivano in gran segreto – che ci chiedono disperate di aiutare a sottrarre i loro figli a un destino a cui non hanno le forze di contrapporsi”.
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Donne, ‘pentite’ di ‘ndrangheta, le quali “varcano la linea divisoria tra loro e lo Stato e vengono a chiederci di allontanare i loro ragazzi – spiega il giudice Di Bella -. I nostri provvedimenti, non punitivi, le sollevano dalla responsabilità di scelte educative che sono divisive in un contesto familiare difficile”. Stanche di lutti e carcere, “l’istinto di madre prevale” e crea una “lacerazioni nel tessuto che sembrava impenetrabile di queste famiglie, aprendo scenari del tutto inediti”.
L’offerta di una realtà nuova, fa in modo che “diverse madri ci chiedono di essere aiutate ad andar via dalla Calabria, di essere ricongiunte con i figli e cominciare una vita nuova”. Così la giustizia rompe “la cultura mafiosa che si trasmette di padre in figlio” e il Tribunale per i minori di Reggio Calabria “non è più percepito, da molti, come un’istituzione nemica. È una conquista importante in un contesto in cui il rapporto tra Stato e ‘ndrangheta è altamente conflittuale”. Una rivoluzione culturale che, però, “non può essere lasciata sulle spalle di un piccolo tribunale di frontiera, con un organico ridottissimo, solo quattro giudici togati, nella provincia forse a più elevata densità criminale d’Italia”.
Da modello apripista, rispetto ad altri tribunali del Sud la peculiarità sta nell’aver siglato “un protocollo giudiziario con le procure del distretto che crea un circuito comunicativo rapido ed efficace”, a Reggio Calabria nasce l’idea ‘Liberi di scegliere’. Un progetto presentato oltre un anno fa, “che il Ministero della Giustizia sta studiando”. L’intento è “costruire reti di supporto ai nostri provvedimenti per accompagnare i minori anche dopo la maggiore età, fino al raggiungimento di una vera autonomia. Creare delle equipe educative antimafia con educatori, volontari, psicologici. Il finanziamento di questo progetto potrebbe darci una grossa mano”.
Un percorso rieducativo “in un’ottica di affrancamento dalla cultura criminale” che possa garantire un futuro diverso per chi “penso ai ragazzi di San Luca, Africo, Bovalino, non sa che esiste un’alternativa alla ‘ndrangheta” sottolinea Di Bella, 52 anni, con un’esperienza di oltre 20 anni come giudici dei minori a Reggio Calabria. Con ‘Liberi di scegliere’ si potrebbe “garantire un reinserimento che prevede anche opportunità di lavoro, ma noi non siamo un’agenzia di collocamento e qui deve subentrare lo Stato”. Il progetto, però, rischia il naufragio, nonostante riscuota “un grande interesse tra ricercatori e stampa mondiale: abbiamo richieste da Stati Uniti e Australia, oltre che dall’Europa”, per conoscere i fondamenti giuridici e i risultati.
“Speriamo che nell’annunciata riforma del diritto di famiglia il legislatore non disperda le professionalità e la cultura specifica che si sono formate nelle esperienze dei tribunali per i minorenni. Noi giudici minorili siamo un po’ preoccupati perché la riforma prevede la soppressione dei tribunali per i minorenni e il loro inserimento all’interno di un tribunale ordinario, dove si prevede una sezione specializzata, con il rischio di perdere l’indipendenza gestionale, la riconoscibilità autonoma sul territorio (fondamentale e simbolica in realtà come quella reggina) e l’autonomia di indirizzo giurisprudenziale”.
La giustizia minorile “deve essere salvaguardata e potenziata, è una materia delicata che non può essere mortificata da una logica di numeri perché i minori rappresentano il futuro, in loro è riposta la speranza di un rinnovamento culturale. Noi possiamo dare un contributo molto importante, per questo bisogna riflettere sul nostro ruolo” anche nella lotta alla ‘ndrangheta che “ha le sue prime vittime all’interno”.
I report psicologici “dei casi che stiamo trattando sono devastanti: alcuni minori hanno sindromi da reduci di guerra, con un forte senso di angoscia che si manifesta nei sogni”. Tra i casi in analisi “c’è chi a 12 anni è stato sorpreso a maneggiare armi, chi è rimasto coinvolto in faide o affari illegali di famiglia, autori di reati contro le forze dell’ordine oppure si è tatuato sulla pianta del piede l’immagine di un carabiniere per poterla calpestare ogni giorno”. Ragazzi sfortunati abituati a convivere con lutti e carcere, “ai quali è negata l’adolescenza e la libertà di scegliere la loro vita. A loro lo Stato – conclude Di Bella – può e deve regalare un futuro diverso”.