Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 3791/2024 del 12 febbraio 2024) è tornata sul tema della tutela delle condizioni di lavoro del dipendente.
Com’è noto, l’art. 2087 del codice civile stabilisce cheil datore di lavoro deve adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti.
In forza di tale disposizione, in passato sono state avviate centinaia di vertenze da parte dei dipendenti che si sentivano vessati dai comportamenti persecutori dei propri superiori.
Dopo una primissima fase che ha visto una certa apertura da parte della giurisprudenza, la Magistratura ha cominciato ad avere un orientamento più restrittivo, richiedendo non solo la prova dell’illegittimità dei provvedimenti, ma anche la prova che tra i provvedimenti contestati ci fosse un “intento persecutorio unificante”.
In buona sostanza, il dipendente non solo doveva (deve) dimostrare di aver subito dei torti, ma doveva anche provare che tali “torti” fossero dovuti ad un comportamento persecutorio intenzionale.
Diverso è il caso in cui un dipendente di trova in una condizione di lavoro “lesiva della salute, cioè nociva”(Cass. n. 3692/2023; Cass. n. 3291/2016).
In questo caso, il dipendente dovrà dimostrare solo il rapporto tra il danno alla salute patito e l’ambiente di lavoro “stressogeno”.
A sua volta, il datore di lavoro – per risultare esente da responsabilità- dovrà dimostrare di avere adottato «le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro» (Cass. n. 24804/2023, 34968/2022, 33239/2022, 29909/2021, 14192/2012, 4184/2006).
Il caso esaminato dalla Corte riguardava una situazione di forte conflittualità denunciata da un’assistente amministrativa, conflittualità dovuta ad un forte contrasto tra dirigente scolastico e segreteria.
Da una perizia appositamente espletata, è risultato che effettivamente il danno alla salute lamentato dalla dipendente era strettamente collegato a tale situazione di conflittualità all’interno del luogo di lavoro.
La Corte – dopo aver affermato che è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori – ha ricordato che tra le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro rientra senz’altro la prevenzione e, ove possibile, la rimozione di un contesto di conflittualità all’interno dell’istituto. La Corte ha così annullato la sentenza della Corte d’appello che aveva rigettato il ricorso della lavoratrice in quanto si era ritenuto non dimostrato l’intento persecutorio (tipico del mobbing), affermando che occorreva comunque verificare la sussistenza di una responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.
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