Incredibile, ma tragicamente vero: il regime fascista proibì alle donne l’insegnamento della filosofia. E non solo. Già pochi mesi dopo la marcia su Roma, infatti, il Regio Decreto 1054 del 6/5/1923 (uno dei decreti della riforma Gentile), all’articolo 12 vietava alle donne la direzione delle scuole secondarie: «I prèsidi sono scelti dal Ministro (…). Dalla scelta sono escluse le donne».
Appena al potere, dunque, il fascismo si occupò di scuola. E della condizione sociale della donna. Scelte non casuali nella costruzione di un regime totalitario.
Il 9 dicembre 1926 l’art. 11 del R.D. 2480 proibisce di fatto alle donne di insegnare in licei e istituti tecnici. Non solo le donne non possono più insegnare filosofia, ma nemmeno storia, greco, latino, letteratura e discipline economiche: tutte le materie allora considerate “più nobili”. Alle donne restano concorsi ed esami di abilitazione “per maestra giardiniera negli istituti magistrali”: la maestra elementare appare più vicina alla figura materna, perché la donna fascista deve fare la madre.
E per le studentesse? Il “liceo femminile”. Lo istituisce il Capo VII del già citato R.D. 6/5/1923, n. 1054; il cui art. 65 recita: «I licei femminili hanno per fine di impartire un complemento di cultura generale alle giovinette che non aspirano né agli studi superiori né al conseguimento di un diploma professionale». Licei femminili, destinati a rimanere ben poca cosa. Difatti l’art. 66 ordina che «Ogni liceo femminile non può avere più di due corsi completi», e vieta eventuali classi aggiunte.
L’art. 69 autorizza poi l’istituzione “di non oltre 20 regi licei femminili in tutto il regno”. Le materie insegnate comprendono (art. 67) “lingua e letteratura italiana e latina, storia e geografia, filosofia, diritto ed economia politica; due lingue straniere, delle quali una obbligatoria e l’altra facoltativa; storia dell’arte; disegno; lavori femminili ed economia domestica; musica e canto; uno strumento musicale; danza”.
La Legge 15/6/1931, n. 889 (Riordinamento dell’istruzione media tecnica. Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n. 163 del 17/7/1931) all’art. 7 finalizzava la “scuola professionale femminile” allo «scopo di preparare le giovinette all’esercizio delle professioni proprie della donna e al buon governo della casa», destinandole allo studio di “cultura generale (italiano, storia, geografia, cultura fascista), matematica, nozioni di contabilità, scienze naturali, merceologia, disegno, nozioni di storia dell’arte, economia domestica, igiene, lavori donneschi, lingua straniera, religione”.
Agli uomini erano riservati studi più approfonditi, perché il lavoro (specie produttivo e/o dirigenziale) era riservato agli uomini. Le donne dovevano interiorizzare che il proprio posto era fra le pareti domestiche, ad allevare figli per la Patria servendo il marito. Se proprio volevano lavorare (e se trovavano un impiego), dovevano ubbidire a dirigenti maschi e fare per loro le dattilografe, le stenografe, le telefoniste, le raccoglitrici di dati.
Infatti, la Legge 18/1/1934, n.221 statuisce all’art. 1 che «L’assunzione delle donne agli impieghi presso le Amministrazioni dello Stato (…) è limitata alla proporzione massima del 10% del numero dei posti», con possibilità per le Amministrazioni di «stabilire una percentuale minore nei bandi di concorso». Inoltre «Le pubbliche Amministrazioni e le aziende private che abbiano meno di dieci impiegati, non possono assumere alcuna donna quale impiegata». L’art. 2 ordina «l’esclusione della donna da quei pubblici impieghi ai quali sia ritenuta inadatta, per ragioni di inidoneità fisica o per le caratteristiche degli impieghi stessi». Gli articoli successivi stabiliscono il licenziamento per le donne in soprannumero rispetto a queste nuove norme.
Insomma, le norme fasciste fissavano la donna al ruolo umiliante di umano di serie B, discriminato per legge perché inferiore. Nella sua opera Politica della famiglia (1937), l’ideologo fascista (e cattolico conservatore) Ferdinando Enrico Loffredo scrive — in perfetta continuità col pensiero di Benito Mussolini e di Giovanni Gentile — che il fascismo deve realizzare «la negazione teorica e pratica di quel principio di eguaglianza culturale fra uomo e donna che può alimentare uno dei più dannosi fattori della dannosissima emancipazione della donna». La donna, secondo lui, deve tornare «a essere inferiore, suddita del padre o del marito».
Perciò «l’abolizione del lavoro femminile deve essere la risultante di due fattori convergenti: il divieto sancito dalla legge, la riprovazione sancita dall’opinione pubblica. La donna che – senza la più assoluta e comprovata necessità – lascia le pareti domestiche per recarsi al lavoro, la donna che, in promiscuità con l’uomo, gira per le strade, sui trams [sic], sugli autobus, vive nelle officine e negli uffici, deve diventare oggetto di riprovazione, prima e più che di sanzione legale».
Uno studio accurato sul tema è Donne nel regime fascista di Victoria De Grazia (Marsilio 2001).
Non a caso le madri costituenti lottarono affinché l’art. 3 della Costituzione vietasse prima di tutto, tra le distinzioni potenzialmente nocive all’eguaglianza davanti alla legge, la distinzione di sesso. Eppure, quanto rimane, nell’Italia di oggi, della segregazione di genere tipica del fascismo? Troppo. Non solo a giudicare dalla cronaca nera, ma anche da quanto è possibile vedere su alcuni media: quelli che vellicano gli archetipi e gli stereotipi più bassi ed avvilenti della sottocultura italiota, spesso molto radicati perché molto più antichi del fascismo.
Davvero oggi la donna viene sempre trattata, sui vari canali (canili?) TV, come un essere umano ripieno di dignità e di valore? Ed è solo per caso che la categoria di laureati meno pagata in Italia sia oggi quella dei docenti, composta per l’83% da donne?
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