I ‘nativi digitali’ pensano diversamente, rispetto alle generazioni precedenti, ma sanno più cose anche se hanno anche grosse lacune; la loro modalità di ragionare li rende più liberi ma anche più fragili rispetto alle dipendenze.
“Le evidenze delle neuroscienze mostrano come siano sollecitate aree cerebrali diverse”, spiega Laura Ambrosiano, psicoanalista della Società psicoanalitica Italiana.
“Il funzionamento della mente dei ‘nativi’ è diverso rispetto agli ‘immigrati digitali’, come viene definito chi appartiene alle generazioni precedenti. In futuro – spiegano gli esperti della Società – psicoanalitica italiana- la loro modalità di pensiero costantemente iperconnessa potrebbe portare a modificazioni importanti. Ora tuttavia possiamo provare a tracciare un identikit del nativo, sulla base degli studi disponibili”.
Per esempio, c’è correlazione tra le ore di esposizione alle nuove tecnologie e l’aumento del quoziente intellettivo: significativamente, a troppe ore di esposizione non corrisponde alcun aumento.
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I nativi, inoltre, mostrano di possedere un sapere enciclopedico, più vasto degli immigrati, eppure meno sistematico, e a volte con gravi lacune: ciò che imparano lo condividono col gruppo e “in questo continuo condividere, sembra che non vi sia tempo sufficiente alla strutturazione della tensione etica: il modello etico si fonda su quello prevalente nel gruppo, quello personale resta in secondo piano. Il concetto di privacy, come lo intendiamo noi, per loro non esiste”.
“La nostra esperienza clinica con gli adolescenti- sostengono gli esperti- ci porta a osservare come il pensiero dei ragazzi tenda ad abbandonare strutture logico-deduttive e strutture etiche strettamente sorvegliate (superegoiche), per prendere altre strade, in cui prevalgono modalità eccitatorie. Questo può renderli più liberi, ma anche più vulnerabili, per esempio alle dipendenze”.