Attualità

Neet, l’Italia si conferma ai primi posti in Europa. Peggio con l’emergenza sanitaria

Il numero dei giovani attualmente sprovvisti d’impiego o che non seguono un corso di formazione /universitario sono in crescente aumento nel Bel Paese; a farlo presente, oltre all’ISTAT, è il dossier periodico “Education at a glance” dell’OCSE, l’ente europeo che si occupa da Maastricht di Sviluppo, Cooperazione ed Interconnessione tra le molteplici realtà europee.

La pubblicazione, presentata in Commissione le scorse settimane come iter comanda, prende in esame i dati ufficiali dichiarati da ogni singolo ente di statistica nazionale; il quadro emergente, relativo alle fasce più giovani della popolazione europea, è assai preoccupante: l’impossibilità di trovare un impiego aderente alle capacità o alle aspettative professionali, il mercato del lavoro spesso non soddisfacente e lo scarso interesse nel seguire un corso di formazione post-secondario o universitario sono le prime cause della presenza di numerosi neet nel Belpaese, come prodotto di un mercato delle cose, delle opportunità e delle persone non aperto proprio a tutti. 

I dati del dossier OCSE: l’Italia tra i primi posti per neet e disuguaglianze giovanili

L’Eurostat, che offre fondamentale supporto all’OCSE nella redazione di tali pubblicazioni, ha fatto presente che il Belpaese, su cui gravano secolari problemi irrisolti legati a lavoro e occupazione, si trova ai primi posti in Europa per numero di giovani non occupati in alcuna attività, studio o impiego che sia.

Il 29,5% della popolazione con età compresa tra i 15 e i 29 anni trascorre – almeno a livello ufficiale – le giornate a far nulla; il dato sale al 35 % per le ragazze coetanee. A gravare sul fenomeno già drammatico e complesso, dove un giovane su tre non riesce ad inserirsi nel mondo formativo o professionale post-secondario, è stata l’attuale emergenza sanitaria, la quale ha limitato all’unisono in tutto il paese l’erogazione della didattica in presenza, dunque il confronto attivo, il contatto ed il dialogo fattivamente pratico tra studenti e docenti.

A tal punto, occorre riconsiderare la scuola non come un luogo puramente formativo dove vengono somministrate a mo’ di pillole nozioni e capacità d’erudizione di base, ma anche un contesto ludico, d’incontro e di scambio; la chiusura degli istituti di formazione e degli atenei in funzione della didattica erogata da remoto ha inoltre favorito l’insorgere di psicopatie come ansie e depressioni di varia natura.

L’effetto della chiusura di istituti e atenei: limitazioni all’apprendimento e alla mobilità sociale

Di certo le disposizioni di natura sanitaria, emesse in risposta quasi bellica contro il nemico invisibile, non hanno agevolato la vita sociale di giovani e studenti; questi, secondo recenti statistiche emesse dal MIUR, perderebbero circa 7 mesi di formazione nel caso di chiusure forzate, dato corrispondente a quasi un anno scolastico. I risultati, com’è ovvio, si evincono anche dalle prove INVALSI, utilizzate tra le altre cose anche per valutare il livello medio di competenze in discipline di base come lingua e letteratura italiana, matematica, aritmetica, geometria e lingua inglese.

Da queste risulta che la quota di studenti e studentesse sprovvisti di competenze di base è aumentata vertiginosamente del + 25 %, rendendo il Belpaese tristemente noto per l’analfabetismo funzionale ed altri index correlati. A gravare su questo preoccupante aspetto è stata la chiusura delle scuole a causa della pandemia, che ha costretto gli studenti a seguire le lezioni a distanza per un periodo corrispondente al 45% del calendario scolastico; per tale appunto, rispetto al resto del Vecchio Continente le autorità italiane hanno erogato la formazione delle scuole superiori a distanza per 90 giorni contro una media di 70 dei Paesi OCSE, rendendo inevitabile l’utilizzo della DAD, rivelatasi un fallimento per le famiglie meno abbienti, spesso sprovviste di supporti elettronici e di connessione internet. 

Andrea Maggi

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