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Nel centenario di Danilo Dolci: nonviolenza, maieutica reciproca e l’immaginazione di un mondo più giusto

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   Danilo Dolci nasceva cent’anni fa, il 28 giugno, a Sesana, che allora era italiana ed in provincia di Trieste. Studiò architettura a Milano; prima della laurea, nel 1952, decise di trasferirsi a Trappeto, un borgo di pescatori in provincia di Palermo. Il padre Enrico faceva il ferroviere ed era stato trasferito anni prima in quella zona, dove Danilo lo aveva raggiunto per la prima volta nell’estate del 1940. Il ricordo della miseria di quei luoghi spinse Danilo, la cui sensibilità sociale era fortissima, a tornare e a restarvi sino alla morte, avvenuta nel 1997. 

Comprimere in poche righe la poliedrica e fervente attività di Danilo Dolci non è facile: poeta, sociologo, educatore maieutico, organizzatore e agitatore sociale, pacifista rivoluzionario sono tutte definizioni che gli vanno strette. Fu senz’altro un uomo dalla prorompente personalità, con cui non sempre e non per tutti fu facile collaborare (come spesso accade nei centenari, si compie un processo di laica “santificazione”, facendo torto ad un uomo che non si sottrasse al confronto e persino al conflitto con chi gli stava accanto). Lo vogliamo ricordare per l’estrema attenzione che Danilo pose ai processi educativi sin dall’inizio del suo trasferimento nella Sicilia occidentale, prima (attorno al 1954) con la costruzione di un asilo e di una università popolare per gli adulti – in quello che definì “Borgo di Dio”- poi attraverso la messa a punto del metodo maieutico, che caratterizzerà l’attività di Dolci come educatore.

Tale esperienza è riassunta nel saggio Chissà se i pesci piangono, pubblicato da Einaudi nel 1973. Non stiamo qui ad indagare quanta teoria pedagogica precedente (da Montessori a Freinet a Freire) confluisca nell’azione di Dolci. La sua scuola del Mirto, nella prima metà degli anni Settanta, si porrà come un riferimento obbligato per chi crede in una pedagogia libertaria: “Presupposto essenziale del nuovo centro educativo è che i bambini, i ragazzi, hanno interessi vitali: questi vanno scoperti e sviluppati da loro in collaborazione con persone che abbiano il gusto e la capacità di scoprire, di realizzare, di proporre attorno a sé validi interessi.

   Il bambino, il ragazzo, non deve essere spinto al centro: deve risultarne attirato. Un educatore è essenzialmente un esperto di maieutica: intesa come processo di chiarificazione teorica e pratica di gruppo, che avviene sulla base dell’esperienza e dell’intuizione di ciascuno. Dai primi anni avvia i ragazzi del gruppo a sperimentare come si può ricercare insieme, come ci si può comprendere, come si può decidere insieme, come si può agire insieme: come ci si può coordinare e come ciascuno può divenire maieuta”.

   Con tristezza penso alla superficiale e oggi tanto ribadita “centralità dello studente”, mantra istituzionale dei nostri tempi – la confronto con l’idea, semplice e giusta, dell’attirare il ragazzo verso il centro con metodo maieutico. Quanta strada indietro si è fatta da quegli ormai lontani anni Settanta? Quanto peso si è dato a quell’ “insieme”, cifra della pedagogia di Dolci?

   Danilo fu un uomo d’azione; restano celebri alcune sue iniziative. La prima, simbolica, fu il digiuno del 1952, fatto affinché le autorità si interessassero dello stato di miseria in cui versava il territorio della Sicilia occidentale. Il digiuno Danilo lo fece sul letto di un bambino che aveva visto morire per denutrizione. Poi ci fu lo “sciopero al contrario” in cui un centinaio di disoccupati misero mano ad una “trazzera” per ripristinarla.

   Seguirono molte altre iniziative, tutte orientate all’emancipazione di un popolo che aveva sempre subito la soperchieria dei ricchi, della mafia e anche dello Stato. Per lo “sciopero al contrario” Danilo Dolci venne arrestato con questi capi di imputazione: invasione di terreni, istigazione a disobbedire alle leggi e oltraggio a pubblico ufficiale. Lo difese Piero Calamandrei. Chiudo questo brevissimo e parziale ricordo di Danilo Dolci con una lunga citazione tratta dall’arringa che Piero Calamandrei pronunciò in sua difesa il 30 marzo 1956, dinanzi al Tribunale penale di Palermo, nel processo che seguì lo “sciopero al contrario”:

Io ho ammirato, lo ripeto, la misura con cui ha parlato il P.M.; ma su due delle premesse (oltreché, ben s’intende, su tutte le sue conclusioni) non posso essere d’accordo: e cioè quando egli ha detto che questa è “una comunissima vicenda giudiziaria “, e quando ha detto che per deciderla il Tribunale dovrà tener conto della legge ma non delle “correnti di pensiero” che i testimoni hanno portato in questa aula.

    Dico, con tutto rispetto, che queste due affermazioni mi sembrano due grossi errori non soltanto sociali, ma anche specificamente giuridici. Non sono d’accordo sulla prima premessa. Questo non è un processo “comunissimo”: è un processo eccezionale, superlativamente straordinario, assurdo. Questo non è neanche un processo: è un apologo.   Un processo in cui si vorrebbe condannare gente onesta per il delitto di avere osservato la legge, anzi per il delitto di aver preannunciato e proclamato di volere osservare la legge: arrestati e rinviati a giudizio sotto l’imputazione di volontaria osservanza della legge con l’aggravante della premeditazione!

   Ci sono a Partinico, oltre pescatori, altre migliaia di disoccupati. La Costituzione dice che il lavoro è un diritto e un dovere. Allora, che cosa fanno questi settemila disoccupati: invadono le terre dei ricchi, saccheggiano i negozi alimentari, assaltano i palazzi, si danno alla macchia, diventano banditi?

    No. Decidono di lavorare: di lavorare gratuitamente; di lavorare nell’interesse pubblico.    Nelle vicinanze del paese si trova, abbandonata, una trazzera destinata al passo pubblico; nessuno ci passa più, perché il comune non provvede, come dovrebbe, alla sua manutenzione; è resa impraticabile dalle buche e dal fango. Allora i disoccupati dicono: “Ci metteremo a riparare gratuitamente la trazzera, la nostra trazzera. Ci redimeremo, lavorando, da questo avvilimento quotidiano, da questa quotidiana istigazione al delitto che è l’ozio forzato. In grazia del nostro lavoro la strada tornerà ad essere praticabile. I cittadini ci passeranno meglio. Il sindaco ci ringrazierà”. Che cosa è questo? E? la stessa cosa che avviene quando, dopo una grande nevicata, se il Comune non provvede a far spalare la neve sulle vie pubbliche, i cittadini volenterosi si organizzano in squadre per fare essi, di loro iniziativa, ciò che la pubblica autorità dovrebbe fare e non fa […]

    E qui affiora il secondo sul quale io mi trovo in dissidio con le premesse affermate dal P.M.:, quando egli ha detto che i giudici non devono tener conto delle “correnti di pensiero”, che i testimoni accorsi da tutta Italia hanno fatto passare in questa aula.

  Ma che cosa sono le leggi, illustre rappresentante del P.M. se non esse stesse “correnti di pensiero”? Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta: se lo lascio andare, questo libro dei codici che ho in mano, cade sul banco come un peso inerte.

   E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarvi entrare l’aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue e il nostro pianto.

Altrimenti le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante, vanno riempite con la nostra volontà”.

     Si può leggere qui tutta l’arringa – l’anno scolastico si sta chiudendo, ma il prossimo anno ricomincerà presto. Quando sarà ora, spero che tanti insegnanti proporranno alle classi che saranno loro affidate questa prosa così sobria e profonda, attraversata da una tensione morale purtroppo assente dai discorsi politici odierni, così intrisi invece, troppo spesso, di vuota retorica. Qualche giovane mente si incuriosirà e sarà attratta a capire più a fondo di chi parli questa arringa, chi fossero quei disoccupati siciliani, cosa fosse una trazzera e cosa aveva fatto, oltre allo sciopero al contrario, quel giovanotto corpulento che si chiamava Danilo Dolci.