Attualità

Niente Schwa e asterischi nelle scuole: ma in quante li hanno mai usati?

Più il dibattito si infuoca, più escono dichiarazioni contrastanti relativamente al divieto alla scuole di usare asterischi e Schwa; e se per un verso gli alleati politici del Governo plaudono al ministro, anche con espressioni del tipo: “Giù le mani dalla lingua italiana, dal buonsenso, dal rispetto”, aggiungendo che “la scuola deve attenersi alla grammatica tradizionale, senza introdurre variazioni”, da altre fonti si sottolinea che la lingua è un continuo divenire, un perenne modificarsi e basterebbe leggere perfino una novella di Pirandello per capire la metamorfosi  che ha subito nell’arco nemmeno di un secolo, compresa la “neolingua” di Andrea Camilleri. La stessa Accademia della Crusca accetta, con comprensibile lungimiranza, i vari mutamenti che con sempre maggiore duttilità si diffondono nell’italiano, consentendo barbarismi e neologismi, inventati da giornalisti per lo più, avendo loro soprattutto le chiavi metamorfiche della morfologia della lingua.  

Tuttavia, se a nessuno è venuto mai in mente, per esempio, di imporre per legge l’uso coretto dell’avverbio “piuttosto che” in funzione avversativa, nel senso “invece di”, al posto di usarlo, come ormai orribilmente si sente un po’ dovunque, come congiunzione al posto della “e”, appare strano questa presa di posizione del ministro. Il quale però specifica: non si usino i due simboli nei documenti ufficiali della scuola.

Tuttavia, mentre c’era, perché non ha pure sottolineato che nei documenti ufficiali della scuola si debba usare un italiano corretto, correttissimo, e chi sbaglia deve essere sanzionato? Cioè, perché questo guardare solo una parte e non il tutto, compreso il burocratese che ingolfa la comprensione di chi non ha strumenti sufficientemente idonei? Ricordiamo, fra l’altro, che in talune circolari, dalle ordinanze ai dispositivi per le domande di trasferimento, talvolta non si capisce un tubo ed è giocoforza rivolgersi ad esperti i quali non raramente interpellano il Mim per avere certezze.

Dunque l’affermazione, secondo cui “La lingua giuridica e burocratica non è sede adatta per sperimentazioni innovative che portano alla disomogeneità e compromettono la comprensione dei testi”, appare un triplo salto mortale inutile, considerato tutto il resto e che non sarà certamente un segno grafico, tra maschile e femminile, a dare grattacapi .

Ma aggiungiamo: che provvedimenti sono stati presi nei confronti di coloro che hanno sbagliato, e continuano a farlo, nelle formulazioni dei test per il concorso a cattedra o a dirigente o ad altro ufficio? 

In ogni caso, la domanda dalla cento pistole è la seguente: ma il Ministero è certo che le scuole usino questi segni convenzionali, questi simboli nelle loro comunicazioni e nei lorodocumenti?

Da quanto ci risulta (ma possiamo forse sbagliare), nessuna scuola li ha mai usati, per cui l’impressione complessiva è che il Mim abbia voluto in qualche modo forzare la materia per non lasciarsi sfuggire l’occasione di un applauso.

Che potrebbe scattare, benché, i veri problemi delle scuole siano molto più complicati e molto più importanti e molto più numerosi che aggiungere un simbolo qualsiasi a un nome o a un aggettivo.

Tuttavia, senza nascondimenti, il pensiero più comune, nel vietare i due simboli, si appollaia sul fatto che, essendo essi usati per lo più dalla comunità LGBTQ+, come linguaggio inclusivo non basato sul genere binario maschile/femminile, ha dato fastidio “ideologico” e dunque l’obbligo di legge a non usarli.

Ma con ciò, si dimentica pure che ilgenere grammaticalenon nasce per indicare il genere biologico ma per ragioni strutturali, dopo la scomparsa, dovuta alla generale semplificazione, del neutro latino. Che è scomparso per suo intimo sfaldamento, pur rimando ancora qualche guizzo, ma non certamente per imperio legislativo.

Pasquale Almirante

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