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Ninna nanna prigioniera: la maternità in carcere

Come può essere vissuta la maternità per donne detenute? Come possono far addormentare il loro bambino senza poter camminare, perché la sera chiudono le cella a chiave e non c’è spazio per muoversi? Come può una madre crescere un figlio in un luogo dove la sua libertà e la sua dignità sono sospese? Ma al contempo, come possono dei bambini così piccoli crescere senza la loro madre? Chi può veramente decidere cos’è meglio per loro? In Italia le donne in carcere sono pochissime, al di sotto del 5% del totale. Vivono ristrette in uno dei 5 istituti femminili (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli e Venezia Giudecca) o in una delle 52 sezioni presenti all’interno delle carceri maschili. La detenzione se coincide con la maternità è un capitolo ancora più doloroso che può diventare choc quando il bimbo compie tre anni e secondo la legge il minore deve uscire. Sono numeri piccoli: nel 2014 i bambini detenuti con le loro madri erano 27, sebbene questo sia il numero più basso mai raggiunto dal 1975, non si è soddisfatto l’obiettivo del ”mai più bambini in carcere” condiviso nella discussione parlamentare che ha preceduto l’ultima legge.

 

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Mancano tuttavia appositi Istituti a custodia attenuata per madri, o case-famiglia protette, che dovrebbero essere costruiti in ogni regione. L’obiettivo della legge è di tutelare i valori della maternità, nella convinzione che sia fondamentale per il bambino instaurare nei primissimi anni della sua vita un forte legame con la propria madre.

”Mi sono chiesta cosa accade poi, quando i due vengono separati. E come può essere vissuta la maternità per quelle donne che per 24 ore al giorno non hanno nessun altro a cui appoggiarsi, e sono rinchiuse”: così donne che hanno a cuore questo problema.

Pasquale Almirante

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