Cara ministra,
sono un’insegnante come tanti altri (centinaia di migliaia) che da oltre 50 giorni cerca di continuare dignitosamente a svolgere il proprio lavoro. In un paese immobilizzato dal virus e dalla paura, il mondo della scuola si è mosso freneticamente per inventarsi in una manciata di giorni un nuovo modo di insegnare. La politica (come sempre) ci ha lasciati soli e ha lasciati soli milioni di famiglie che hanno dovuto imparare prima che cosa voglia dire DAD e poi che ci vogliono computer (possibilmente uno per figlio), connessioni (possibilmente veloci), giga (tanti giga, centinaia di giga) e tanto tanto tempo (per scaricare documenti, cercare di aprirli, caricare documenti, imparare l’uso di applicazioni di tutti i tipi).
Come spesso è accaduto nel mondo della scuola, i più (vecchi e giovani) si sono rimboccati le maniche e a testa bassa hanno cercato di continuare a ‘dire’ – attraverso la matematica, la fisica, l’italiano, il latino, il greco, la storia, la filosofia, le scienze, l’arte, le lingue… ma anche le scienze motorie – che l’uomo è tale se esprime la sua dignità intellettuale anche (e soprattutto) nei momenti drammatici della sua storia (che sia la storia individuale o quella con la S maiuscola).
Non è stato facile, sa. Non si è trattato solo di capire come fare a raggiungere virtualmente decine di studenti (qualcuno di noi ne ha anche 150/200) e ‘insegnare’ in una lingua diversa da quella finora usata ‘in presenza’. Abbiamo dovuto prima di tutto fare i conti con le nostre e le loro paure, l’isolamento forzato, l’esclusione dalle relazioni sociali e talvolta affettive, la compressione di una convivenza familiare h24 che negli adolescenti (e non solo) può essere esplosiva; e poi la malattia, il distacco, il lutto. In molti, docenti e studenti, abbiamo capito ora come non mai che lo studio e la conoscenza sono un’ancora per non andare alla deriva, un faro per illuminare la notte dell’incertezza e dell’attesa, la bussola per scegliere una strada, quando non c’è nessuno (neppure chi dovrebbe per il ruolo politico e istituzionale che svolge) che indichi almeno in che direzione andare. Nel mondo paralizzato le teste dei nostri ragazzi hanno continuato a lavorare, hanno dimostrato serietà e impegno, hanno continuato a costruire – anche se virtualmente e spesso senza saperlo – il loro e il nostro futuro.
A poco più di un mese dalla fine della scuola, nessuno ha ancora detto a questi ragazzi come e quando finirà il loro anno scolastico; nessuno si è preso ancora la responsabilità di decidere che tipo di esame di stato dovranno sostenere coloro che nella scuola non rientreranno più.
Noi continuiamo a parlare loro di letteratura e di letterature, di scienze astratte e applicate, di arte, di pensiero e di storia, ‘cose’ in cui ancora crediamo (anche se sempre più spesso il mondo fuori della scuola ci chiede a che cosa servano o ci dice, senza ritegno e senza rispetto, che non servono più a niente); ma soprattutto continuiamo a caricarci delle loro incertezze, delle loro preoccupazioni, delle loro delusioni, del loro sconforto.
Non ci chieda, la prego, di tradurre tutto questo in un numero, non ci chieda che la logica spesso miope di quantificare tutto marchi con un 5, un 6… un 9 le loro storie personali (‘connesse’ o ‘sconnesse’; piene di aiuti e di affetti, o di emarginazione e solitudine; leggère di serenità o pesanti di dolore e di perdita), perché è questo che ci chiamerebbe a fare: in questo momento conoscenze, capacità e competenze non sono valutabili con l’onestà professionale che deve guidarci.
Ce li porteremo tutti all’anno prossimo: allora ci sorprenderemo di come i nostri ragazzi siano cresciuti in una manciata di mesi, conteremo i danni di mesi drammatici, con oggettività e responsabilità e, mi creda, come sempre ci rimboccheremo le maniche.
Sabina Mazzoldi