Alla primaria sono numerosi, ma frequentano a singhiozzo e con risultati poco brillanti. Alle medie spesso vengono bocciati e uno su due si perde per strada. Alle superiori non arriva quasi nessuno, appena due ogni cento. Sono i nomadi. Quei bambini figlio di un dio minore, condannati dalla loro provenienza etnica. Da un dna che non sembra contemplare cultura, studio, istruzione. Troppo forte è la resistenza da parte dei nomadi “grandi”. Quelli che decidono il destino, da sempre, delle nuove generazioni.
Un destino che, già in tenerissima età, li porta a chiedere l’elemosina. Ai semafori, nel metrò, fuori le chiese o i cimiteri. Anziché andare a scuola.
Già la scuola. Qualche giorno fa l’Associazione 21 luglio con, tra gli altri, il garante nazionale dei diritti per l’Infanzia e l’Adolescenza, Vincenzo Spadafora, hanno visitato alcuni campi nomadi della capitale. Tra cui quello più grande della capitale, in via di Salone. Tanti giovanissimi erano lì. Non erano andati a scuola. “Sono senza parole – è stato il commento di Spadafora – sembra assurdo, ed è una vergogna, che persone nel 2013 vivano così tanto ai margini da tutto, dai diritti elementari”. E non solo per la mancanza di istruzione. Perché quasi sempre c’è carenza anche di lavoro, igiene, assistenza sanitaria, l’integrazione. E di altro ancora.
Tra loro c’era Pamela, 15 anni, nata e cresciuta a Roma. La sua presenza al campo, dice, è casuale. La sua famiglia è originaria del Montenegro. Frequenta una scuola per parrucchieri gestita dai salesiani. Ogni mattina, racconta, si sveglia alle 5.30 per arrivare puntuale: deve prendere due treni e un autobus. Come tutte le sue coetanee ha un profilo Facebook che aggiorna “da un internet point a 2-3 chilometri di distanza dal campo”. Da grande vorrebbe aprire un salone tutto suo, ma teme di non poter ottenere il diploma “perché non ha i documenti”. Pamela ha quindi scritto una lettera al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: “Voglio i documenti e non voglio più vivere in un campo, che più che un campo rom sembra un campo di concentramento. So che lei è una brava persona – conclude – e spero che mi capisca”.
Secondo il Centro europeo per i diritti dei rom (Errc), che tra novembre 2012 e febbraio 2013 ha condotto una ricerca su sei campi di Roma e Milano, nell’accesso all’istruzione si incontrano difficoltà “a causa delle inadeguate condizioni abitative, della mancanza della garanzia del possesso dell’alloggio e della paura degli sgomberi, che si verificano se i genitori non garantiscono la frequenza scolastica dei loro figli”.
A Roma ci sono otto campi formali, che ospitano 3.680 rom, di cui 1.960 minori. Si trovano generalmente “in aree insalubri perché vicine ad inceneritori, piste di aeroporti, in mezzo a terreni agricoli. I sistemi antincendio, di sicurezza e fognario sono inadeguati”. Dei tre campi presi in esame solo Gordiani è ben collegato coi mezzi pubblici, Camping River e Castel Romano no. Qui non sono disponibili neanche gli autobus scolastici per i ragazzi che frequentano la scuola superiore e ciò contribuisce all’abbandono scolastico una volta terminata la scuola dell’obbligo.
A Milano, invece, ci sono sette campi formali che ospitano 630 rom di cui 205 al di sotto dei 18 anni. Dei 112 rom in età da lavoro nel campo di Chiesa Rossa, solo sei hanno un lavoro regolare. A Martirano solo 3 su 34. Nessun dato è invece disponibile per il campo Idro. Nei campi di Chiesa Rossa e Martirano risultano non iscritti a scuola almeno sei bambini in età scolare.
C’è, infine, un altro motivo per cui i rom non possono andare alla scuola superiore, all’università, al lavoro: riguarda gli apolidi, di fatto senza documenti. E quindi non iscrivibili oltre la scuola dell’obbligo.