Il dibattito sulla scuola sembra aver assunto in queste torride settimane estive un carattere surreale, con sfumature finanche kafkiane. Mentre la pandemia di Covid-19 ha raggiunto il suo acme a livello mondiale (per ora, in attesa purtroppo di verosimili nuovi record), mentre in vari Paesi europei – Italia non esclusa – in barba all’estate che, come qualcuno sosteneva, ogni virus si porta via, spuntano continui, inquietanti focolai, da noi ha tenuto banco – è il caso di dire – la tematica di cruciale importanza dei nuovi banchi per le aule scolastiche.
Non credo vi sia un altro argomento attinente alla scuola di cui si è parlato di più nelle ultime settimane. Ebbene, in questa atmosfera che sfuma nell’onirico di un sogno – meglio: di un incubo – di mezza estate, sia permesso di andare al sodo, formulando qualche considerazione e qualche interrogativo che chi vorrà saprà cogliere.
1) Che l’arredo della scuola italiana andasse/vada svecchiato è fuori discussione. Quasi tutta, del resto, la scuola italiana esala un forte sentore di vecchiume e non lo si scopre certo oggi. Buona parte degli istituti scolastici dello Stivale è, nella migliore delle ipotesi, brutta, vecchia e logora; nella peggiore raggiunge e oltrepassa il livello dell’oscenità. Specchio fedele della reale considerazione – al di là di ogni proclama e dichiarazione di intenti – di cui l’istituzione scolastica gode da molto tempo nei palazzi della politica. Quando, pochi anni fa, ho messo piede nell’istituto in cui mi sono diplomato nell’anno domini 1989, il senso di dejà vu è andato ben oltre le aspettative. Già, perché tutto era rigorosamente uguale ad allora. Anche i muri, lerci quanto basta da lasciare ipotizzare che l’ultima pitturata sia stata anche la prima, quando hanno eretto la scuola. Ciò doverosamente premesso, non pare che vi fosse tutta questa urgenza di cambiare i banchi proprio ora – salvo i pochi accoppiati, ovviamente – mentre il paese e il mondo si trovano ad affrontare la più grave emergenza del periodo post bellico. La sicurezza – più che mai “bene” primario e prioritario in questi mesi – non si fa con i banchi, neppure se hanno le ruote e sono tutti belli colorati.
2) La sicurezza, come abbiamo compreso a caro prezzo negli ultimi sei mesi, si ottiene soprattutto con due misure essenziali: il distanziamento e la mascherina. Ebbene, alla prima causa non ci capisce come possa giovare il banco con le rotelline, posto che casomai, come qualche docente attivo in classi che già l’avevano ha sottolineato, quel tipo di banco è strumentale a un’attività didattica che prevede l’esatto opposto del distanziamento. Il grazioso banchetto con le rotelle serve ad avvicinare, a fare gruppo, non ad allontanare. Com’è del resto anche intuitivo. Neppure il fatto di evitare le cosiddette classi pollaio può, di per sé, bastare alla causa. Un’aula di medie dimensioni con dentro anche solo 20-22 alunni (più il docente ovviamente) non è certo ascritta alla categoria dei pollai ma si vada a vedere in quanti luoghi di lavoro si raggiungono densità simili. Ancora in queste settimane moltissimi lavoratori del privato operano da casa. Il risultato è che in un ufficio in cui ordinariamente prestavano servizio magari 12-15 persone, adesso ce ne sono 4-5. Non solo. Anche nel comparto pubblico, come è stato precisato le scorse settimane, il lavoro da remoto è stato prorogato al 31 dicembre. Forse perché c’è un buon motivo e una legittima preoccupazione?
Riguardo alla mascherina, viene da chiedersi come mai la si usi ancora in moltissimi luoghi – qui in Lombardia molti la portano ancora anche in strada – mentre per la scuola si possa anche solo ipotizzare – tenendo i docenti sulla graticola fino al termine di agosto – che non venga resa obbligatoria per tutti. Lo sappiamo: a nessuno piace portarla, tutti ne faremmo a meno, a maggior ragione se la prospettiva è quella di indossarla per ore ogni giorno. Ma non è un orpello purtroppo, non è un vezzoso foulard. A titolo aneddotico aggiungo che pochi giorni orsono mi sono recato nella biblioteca situata in una sede periferica del Politecnico di Milano. Ebbene, nonostante non sia mai per nulla affollata – tutt’altro, è spesso quasi vuota – non era nemmeno possibile entrare. Neppure con la mascherina. Ripeto: una singola persona con la mascherina non è ammessa ad entrare, in uno spazio di centinaia di metri quadrati. Consegna e ritiro dei libri al cancello. Altra repubblica? E dal medico di base cosa accade? Accesso vietato (salvo ovviamente che si tratti di una visita, possibilmente urgente) anche con la mascherina. Consegna di ricette e impegnative sull’uscio. Qualche ambulatorio medico pare addirittura ancora sotto chiave – nientemeno – come fossimo in aprile. Altre repubbliche anche queste? O, tutto considerato, possiamo affermare di vivere in un Paese in preda a un forte disturbo dissociativo?
3) Dopo la fine del lockdown, a molti lavoratori di vari settori è stato consegnato un kit contenente un buon numero di mascherine e altri presidi volti a incrementare la sicurezza. Nella scuola, nulla? Tutto a spese del docente? Ma c’è un altro quesito importante che non sembra interessare ai politici. Al personale sanitario che ha contratto il Covid negli ospedali è stato giustamente riconosciuto un indennizzo, in quanto la malattia è stata considerata infortunio sul lavoro. E agli insegnanti che disgraziatamente dovessero contrarre il coronavirus? Ci sarà anche per loro oppure avranno come “indennizzo” una trattenuta sullo stipendio in quanto dovranno assentarsi dal lavoro? Quale delle due risposte è quella corretta? Magari ce lo dice il ministro? Qualche altro politico? La domanda è tutt’altro che bizzarra. Nemmeno tre anni fa, chi scrive ha contratto a scuola (dimostrabile) il morbillo, con quasi immediata polmonite come complicanza. Risultato, quattro giorni di ospedale e un bel mesetto di inferno. In più, spese per analisi e farmaci. Indennizzo? Non scherziamo. Trattenuta sulla busta paga per assenza dal lavoro.
4) Tra i provvedimenti che vorrebbero – velleitariamente, ad avviso di chi scrive – concorrere alla sicurezza c’è la misurazione della temperatura e l’obbligo di non recarsi a scuola se quest’ultima supera 37.5°. Due osservazioni al riguardo. La prima. Rimettere esclusivamente al senso di responsabilità di tutti (tutti!) i genitori un adempimento di questa rilevanza significa affidare nelle loro mani la sicurezza del personale scolastico, cioè di oltre un milione di persone. Il genitore che per qualsivoglia ragione “sgarra” – e chissà quanti ce ne saranno – mette a repentaglio la sicurezza di un’intera scuola. E, come qualche virologo ha ricordato, se il contagio dovesse diffondersi nella scuola rischierebbe poi di propagarsi all’intera società con il rischio di far precipitare di nuovo il Paese in una situazione come quella di aprile. Una bomba innescata, praticamente. Giusto così? La corresponsabilità educativa è un principio generale sacrosanto, ma non vi si può fare tranquillo affidamento quando in ballo c’è un pericolo come quello di una malattia dalle conseguenze letali. La seconda. Ai docenti la temperatura sarà presa all’ingresso della scuola (evidentemente si teme di più il potenziale del docente, quanto a untore e possibile diffusore del contagio agli alunni, piuttosto che il contrario). Ebbene, in luglio chi scrive si è recato tre volte al proprio istituto scolastico per gli esami dei privatisti. In ben due casi, peraltro con varie difficoltà, è stata misurata la temperatura dal personale ausiliario e l’apparecchietto in dotazione ha fatto segnare un valore attorno a 35°. Ovviamente non veritiero. Possiamo dunque stare tranquilli? Poi c’è la questione del test sierologico. Praticamente, una barzelletta. Primo perché sarà solo per docenti e personale scolastico, non per gli alunni quindi; secondo perché sarà pure su base volontaria. Di grazia, questa sarebbe una misura volta a incrementare la sicurezza del rientro a scuola?
In definitiva, non basta garantire, come è stato fatto ancora con qualche dichiarazione resa da politici in questi ultimi giorni, che la scuola riaprirà. E’ indispensabile aggiungere “in sicurezza” e rendere assolutamente fattiva questa precisazione. Mancando queste due paroline diviene legittimo pensare che la priorità sia essenzialmente una e una sola, ovvero quella di dare tranquillità alle famiglie – non avranno più la legittima preoccupazione di dove collocare i figli – dimenticandosi di quel milione e passa di lavoratori della scuola, la cui età media è peraltro la più alta d’Europa, con i rischi che ne conseguono. Non resta dunque che sperare nell’obbligo della mascherina per tutti. In caso contrario, in barba alla profusione di banchi con le rotelline tanto belli che neanche Ikea saprebbe fare di meglio, la barriera che ci terrà al riparo da un possibile disastro rischia di essere sottilissima. Se dovesse rompersi – magari in autunno, quando anche ogni finestra resterà chiusa, perlomeno nelle regioni del Nord – i primi a farne le spese saranno verosimilmente gli insegnanti. Considerata la stima di cui gode la categoria in questo curioso paese, verrebbe quasi da richiamare un noto adagio: sono sempre gli stracci che vanno all’aria.
Sergio Mantovani