Ormai siamo arrivati all’“esasperazione” (diciamo così). Non c’è giorno, infatti, che pedagogisti, più o meno noti, non ‘colpiscano’ il sistema scolastico con critiche severe e con toni perentori, offrendo (solo loro hanno le competenze giuste!) la formula miracolosa e magica che, se applicata, risolverebbe ogni problema, nel confuso mondo dell’educazione.
In realtà, almeno all’inizio, questi inserimenti invasivi erano portati avanti con determinazione dagli psicologi. Non che ora questa categoria di ‘intellettuali’ abbia smesso di ‘pontificare’, ma si è vista quasi superare, in questo continuo desiderio caritatevole di migliorare la scuola e i docenti, dagli ‘esperti dell’educazione’ (o ritenuti tali): i pedagoghi.
Siamo certi che i loro interventi siano fatti in buona fede e mirino sinceramente a ‘consigliare’ quanto si debba fare per eliminare le storture della scuola. E’ giusto, altresì, che ogni ‘addetto ai lavori’ cerchi di contribuire al benessere della scuola. Forse, però, occorrerebbe un certo ‘modus in rebus’ e qualche attenuazione sulla categoricità di alcune affermazioni.
La precisa, severa e ampia analisi scolastica di noti pedagoghi (svolta sul finire dell’anno appena passato) è un chiaro esempio, a nostro modesto avviso, di una eccessiva autostima (non sempre giustificata) di alcuni teorici dell’educazione.
Una volta archiviata la prassi educativa di un tempo, gli elementi imprescindibili da introdurre nella scuola (secondo i nostri pedagoghi) sono i seguenti:
– Creare situazioni di stimolo al sapere e conoscere, allo sviluppo di domande e ricerche.
– Evitare domande di controllo (meno che mai di storia e geografia) e sostituirle con domande maieutiche che stimolino la riflessione e l’esplorazione personale.
– Scardinare l’idea che imparare sia ascoltare passivamente.
– Niente compiti scritti per le vacanze ma compiti di ‘realtà’: visite ai musei, letture personali, passeggiate nei boschi. Viaggi all’estero.
– Non ripetere meccanicamente le informazioni (non memorizzare la lingua latina, ma sapere leggere e capire un’epigrafe in latino in una Chiesa).
Questo in sintesi. Ora, massimo rispetto per tutti, ma far passare questi suggerimenti per novità mi sembra fuorviante. Da più di trent’anni insegno, la scuola, certamente, è molto cambiata ma, spesso, ciò che viene proposto come cambiamento o, addirittura, rivoluzione, sono ‘innovazioni’ ormai datate (e ‘ritoccate’) e, in gran parte, da anni già attivate (non sempre con risultati positivi).
Suscitare meraviglia (la filosofia e il desiderio di sapere nascono proprio dalla meraviglia) e curiosità di apprendere, cercare di far appassionare il discente allo studio (anche personale ), attivare percorsi maieutici (ci aveva pensato molto, molto tempo fa un certo Socrate!) per la riflessione e l’esplorazione personale, per porsi domande e trovare risposte, invitare i ragazzi alla lettura, ai viaggi in altre culture, allo studio delle lingue, alle visite a musei o biblioteche, a guardare film o esplorare la natura. Tutto questo non è nuovo. Lo sapevamo già e (ripeto) in gran parte viene attuato. A questo punto, però, occorre rivolgere una critica ai nostri ‘illuminati’ pedagoghi, eccellenti nella teoria, non altrettanto, probabilmente, nella pratica. Sarebbe un grosso errore, infatti (non è la prima volta che l’affermo ma, “repetita iuvant”), puntare su una didattica composta solo dalle azioni educative sopra elencate e abbandonare (e tradire) la tradizione. Occorre se mai una sinergia tra il nuovo (che tanto nuovo non è) e il vecchio (un vecchio che rimane sempre utile, anzi indispensabile). Le domande di controllo, almeno qualcuna (soprattutto di storia e geografia, materie ormai dimenticate), gli esercizi tradizionali durante le vacanze (in realtà se ne danno sempre di meno), l’ascolto del docente durante un momento di lezione frontale (sempre indispensabile e insostituibile direi, addirittura – benché molti siano di parere contrario – il perno dell’attività didattica), l’esercizio della memoria, non solo per accrescerla, ma per tradurla, poi, in capacità e competenze (come riuscire a tradurre un’epigrafe in latino se nulla si sa e si ricorda del latino, solo con l’intuizione‘) sono pratiche educative da non tralasciare, Mai!
Tutto si può innovare, senza però gettare via il passato, almeno non senza aver prima eseguito una accurata selezione che porti a tenere e usufruire degli insegnamenti didattici dei tempi antichi ancora validi, unendoli poi, intelligentemente, a strategie formative nuove (se sono valide).
Quest’ansia di cambiamento ‘forte’, ‘spinto’ e ‘forzoso’ da parte dei pedagoghi, quasi a voler affermare un certo ‘pedagogismo’, potrà portare grande ed immediato giovamento alla scuola? Non saprei. Meglio procedere con cautela. E inoltre (sorge di nuovo il dubbio) siamo sicuri che tutti queste innovazioni non siano altro che evoluzioni di metodi del passato o siano gli stessi metodi, formulati, semplicemente, in modo diverso?
Uno dei mali della società mediatica è questo: per sentirsi vivi abbiamo bisogno di parlare e di farci notare. Non importa se, spesso, non sappiamo bene cosa affermiamo o presentiamo come novità ciò che già è noto o se il nostro parlare non è altro che un discorso lungo, piatto, prolisso, forse anche poco utile. L’importante è farsi ascoltare.
Andrea Ceriani
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