È una piacevole sera di Luglio e la situazione pandemica è apparentemente sotto controllo, così ci concediamo un paio d’ore di relax tra amiche. Tuttavia, essendo anche colleghe, i nostri discorsi virano puntualmente sul tema Scuola.
Passeggiando lungo il centro storico di Olbia, costeggiamo un caseggiato, bello esteticamente e dalle solide mura in pietra che dal 1911 al 2001 è stato sede di una Scuola elementare: qui una di noi ha mosso i primi passi della sua carriera; dopo anni di chiusura totale e interminabili lavori di riqualificazione, dal 2012 questo stabile è occupato da alcuni uffici comunali.
Chi, tra gli ultraquarantenni che leggeranno questo articolo, non ha mai insegnato o studiato in edifici di simile fattura, possenti, salubri, freschi d’estate e non eccessivamente freddi d’inverno, dagli alti soffitti, dalle aule spaziose che, oltre ad accogliere le nostre classi, ospitavano i laboratori, la bidelleria, la sala professori, la biblioteca scolastica e le neonate aule d’informatica?
Buona parte dei nostri ricordi d’infanzia sono legati a luoghi come questo, le cui mura oggi racchiudono non più vivaci, chiassose scolaresche, bensì – nella migliore delle ipotesi – uffici amministrativi, oppure – nella peggiore – arredi in disuso e tanto, tanto silenzio.
I figli del XXI secolo frequentano, per la stragrande maggioranza (quando hanno il privilegio di non trovarsi in DaD) in scuole geograficamente accentrate, moderne nell’aspetto, ma a volte senza un tetto di tegole, senza metri quadri sufficienti, con pareti di cartone e giusto due o tre tendine velate a ripararli dal sole quando i suoi raggi si fanno più insolenti da metà Aprile in poi. E con le finestre ad altezza di collo di bambino.
Durante gli ultimi decenni ci hanno gradualmente sfrattato da quelle scuole imprimendo loro il marchio dell’inagibilità, dei costi elevati di gestione e manutenzione: in nome di un bilancio che deve quadrare, ci hanno stipati in costruzioni amorfe dove si studia gelando o sudando (dipende dal contesto territoriale). Siamo stati considerati, alunni, insegnanti e collaboratori scolastici, minuscole entità numeriche sacrificabili sull’altare del risparmio economico.
L’operazione Accorpamento/Ridimensionamento, decretata nelle ‘stanze dei bottoni’ dei vari enti locali, procede selvaggia e inesorabile, noncurante dei bisogni e dei diritti della popolazione scolastica, oltre che della situazione sanitaria contingente.
La pandemia che stiamo attraversando avrebbe dovuto (e potrebbe ancora) costituire l’imperdibile occasione per invertire la rotta del taglio qualitativo e quantitativo perseguita sino ad oggi.
Stando ai fatti, tuttavia, continua a risuonare il disco rotto della ripartenza in sicurezza a Settembre, è cambiato giusto l’anno solare, addebitando le colpe di un eventuale fallimento esclusivamente alla condotta di chi non osserva scrupolosamente le regole: abbiamo l’impressione (ma speriamo ardentemente di sbagliarci) che sulle note musicali del suddetto disco non si apriranno nuove ‘danze’: non otterremo il potenziamento dell’organico e dei trasporti, non riapriranno le sedi scolastiche dismesse, né se ne reperiranno di nuove (pur sapendo che rappresenterebbero, specie nelle realtà periferiche, un’arma vincente contro la dispersione scolastica, lo spopolamento e il contagio). Si ripartirà eccome se si ripartirà, per il terzo anno consecutivo con lo stillicidio della DaD in numerosissime classi d’Italia.
Nel frattempo, tutte le altre attività, quelle che creano business, consenso e assembramento popolare a fini ludici sono già ripartite in presenza da tempo e non certo grazie alla magia di Harry Potter.
Non sarebbe fantastico se Lor Signori si prestassero a sponsorizzare e fare il tifo anche per un’Italia che non sia solo quella del pallone?
Daniela Marras