Ciascuno si commuove per qualcosa. Per i sentimenti amorosi, per i ricordi, per la scomparsa di una persona cara o di valore, per le vittime della violenza. Di fronte alla scena di un film che esalta la solidarietà, la fedeltà, l’eroismo, la capacità di superare con determinazione le difficoltà della vita. C’è chi si commuove per il dolore di un innocente o di fronte ad una persona maltrattata.
Mio padre si commuoveva quando considerava temi religiosi, quali la bontà e la potenza di Gesù.
Ma anche di fronte a valori di primaria grandezza, come la persona. Egli passò un periodo della vita a Roseto degli Abruzzi, come operatore dello smistamento postale. Raccontava di quando, una mattina, sul far dell’alba, mentre si recava al lavoro percorrendo la Nazionale, fu spettatore di una disgrazia. L’autista di un camion, colto da un colpo di sonno, travolse sul marciapiede un povero
netturbino al lavoro e preso dal panico si diede alla fuga. Un uomo presente alla scena ebbe la prontezza di rincorrere il camion e di sbarrargli la strada. All’autista fuori di sé, costui disse, nel dialetto abruzzese: “Ma ti rendi conto che hai ucciso una persona!?”. Nel pronunciare queste parole, la voce di mio padre tremava dalla commozione. Egli percepiva la grandezza, l’unicità, l’irripetibilità di una vita umana.
Per quanto riguarda me, confesso che mi commuovo anche quando, prima di una partita di portata internazionale, i calciatori cantano l’inno nazionale. Ho notato che, in quel momento, affiora nel loro volto, qualcosa di bello e di grande. Essi guardano in alto quasi scorgessero un ideale, una stella. Evidentemente, la patria corrisponde a qualcosa di profondo. Un uomo senza patria è una
inconcepibile astrazione. La patria deriva da ‘pater’, padre, e contiene in sé qualcosa di generativo e di primario. Evoca il sentimento di appartenenza ad una storia e ad una cultura comune.
Certamente, anche il cosmopolitismo corrisponde ad un valore nobile, quello dell’universalità umana. Ma nessuno si commuove per il concetto astratto di persona o per la globalità antropologica.
Noi non dovremmo vergognarci di essere fieri di appartenere ad una compagine nazionale. Dovrebbe piuttosto interrogarsi chi non avverte tale sentimento. Dobbiamo solo essere attenti ad impedire che il sentimento identitario degeneri in presunzione ed aggressività. Basta essere qualcosa. Non occorre essere qualcosa di più, cioè prevalere sulle altre culture. E men che meno disprezzarle. Anzi è cosa buona amarle e valorizzarle come espressione di una multiforme ricchezza.
Tuttavia, mi commuovo soprattutto quando scorgo nella mia vita le tracce di un disegno trascendente. Le orme misteriose di un essere onnipotente che ci precede e dispone ogni cosa per il nostro bene. E’ per questo che mi emoziona fortemente tutto ciò che riguarda il valore eterno della nostra esistenza, il mistero dell’aldilà. Ad esempio, nel film ‘Titanic’, mi colpisce l’ultima scena, quella in cui Rose, la protagonista, ormai molto vecchia e carica di ricordi, dopo aver gettato nell’oceano la gemma preziosa che tutti cercavano, simbolo dei valori che danno senso alla vita, si spegne nella cabina di una nave. Il film si conclude con la scena di Rose che torna all’interno del Titanic, illuminato a giorno, dove l’aspetta il suo fidanzato, Jack, insieme alla moltitudine di coloro che sono morti nel naufragio del 14 aprile del 1912. Costoro l’accolgono con un fragoroso applauso e la frase del ragazzo: “Ben tornata a casa!”. Lo sceneggiatore, con questa scena e con questa frase, ha centrato, a mio parere, uno degli strati più profondi della nostra psiche.
L’angoscia da annullamento, che ci segue inesorabile, come ombra, per tutta una vita, soprattutto nell’ultima fase di essa. Cos’altro è la morte, infatti, se non un ritorno a casa, alle origini, alla sorgente che tutti ci genera: Dio … Così, come mi commuove la finale del film ‘Il gladiatore’. Qui, il protagonista, Massimo Decimo, insegue per anni un valore che possa dare un senso unificante all’esperienza umana. Lo trova dapprima nell’ideale politico di Roma, faro universale di civiltà. Sconvolto dall’annientamento della famiglia, si rivolge all’obiettivo della vendetta, escogitando tutti i mezzi per realizzarla. Solo alla fine del film, il suo cuore raggiunge la pace nella dimensione eterna dove l’aspettano la sposa ed il figlio. Anche qui, chi ha costruito il film, ha tenuto presente le aspirazioni profonde della mente: l’amore, l’odio, la rivincita, la ricerca di quella tranquillità che sola può saziarci.
Commozione, emozione … Due termini che hanno per anima lo stesso verbo latino: ‘movére’.
Nascono, cioè da un movimento interno che attinge alle profondità dell’animo. Attenzione, però. L’emozione, la commozione, il sentimento, la fantasia, l’arte, non sono l’antitesi del pensiero. Al contrario, sono costruiti attorno al nucleo di un’idea importante, fondamentale. Come l’amore, la vita, la giustizia, il riscatto, la solidarietà, la comunità storica. Tuttavia, oggi, i sentimenti sono considerati una debolezza. E prevale, assieme alla mentalità scientifica, la logica del distacco avalutativo, il valore dell’autocontrollo emozionale. Noi siamo oppressi dal macigno del razionalismo e dell’oggettività percettiva. Non accettiamo nulla oltre ciò che si può osservare, dimostrare e ricondurre a numero. Papa Francesco quando afferma che la predica deve commuovere, ci ricorda che esiste qualcosa di più profondo della razionalità. Gli oratori di una volta, infatti, avevano come principio comunicativo la ‘mozione emotiva’. Riuscire, cioè, a scatenare la gioia e la commozione. Il modello della comunicazione pubblica attuale è, invece, quello dell’esposizione piana e fredda, fatta con tonalità di voce neutra, alla maniera di un resoconto scientifico. Dovremmo chiederci, piuttosto, come mai un cantante, capace di rivestire i suoi concetti di immagini, riempia uno stadio, mentre un filosofo analitico non riempie neanche un caffè.
Luciano Verdone
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