L’arte non è mai davvero entrata nelle nostre scuole, né la musica o la poesia o il cinema o la danza. Se non in forme risibili e caricaturali. Perché mobiliterebbero aree esperienziali dell’individuo che da sempre sono state rimosse dall’intenzionalità formativa al potere. Le scuole da sempre hanno come unico bersaglio il cervello. Non solo, l’idea di conoscenza che si veicola in quei luoghi di pena rispecchia un’epistemologia rigida, austera e antiquata. Mai un impatto che non sai mediato da quegli strumenti di riduzione sistematica che sono antologie e manuali. Del resto la stessa storia dell’arte ha potuto sopravvivere miseramente solo per quello: perché in essa l’arte è ridotta a informazione, a catalogo storicizzato, a rubrica deprivata d’ogni potere di fascinazione. Mai che l’arte (o la musica, o la poesia), siano state il soggetto di un incontro plenario, senza che fossero seppellite sotto verbose introduzioni, inquadrate dentro griglie e periodizzazioni, sottoposte a giudizi, commenti, gerarchizzazioni.
E invece, si dice su La Stampa, il bisogno primario di tutti noi, e dei nostri figli anzitutto, è proprio quello di coltivare l’ascolto ricettivo delle opere dei poeti, delle creazioni dell’immaginazione simbolica, uniche forme di espressione ove risuoni non il prometeismo dell’uomo del fare ma una comprensione stupita e pronta a riconoscere ad ogni infinitesima parte del tutto, il diritto a essere e a essere secondo la sua irriducibile singolarità.
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