Simon Weil scriveva che la pubblica istruzione sia tale da fornire il più possibile i mezzi espressivi per l’esprimersi della intelligenza, nella sua libertà di espressione. E che a tal guisa “occorre un sistema di istituzioni tale da portare il più possibile alle funzioni di comando uomini capaci e desiderosi di udire e comprendere il grido talvolta fievole che si leva dal basso”, cioè dalla Polis.
E ciò è di effettiva consapevolezza in questo nostro odierno che ancora è spettatore di scelte che sono frutto di decisioni non attente al grido, oserei dire perennemente indifferenti ad esso, mentre la realtà è una enumerazione costante allarmistica, della quale però non si è mai davvero compreso la portata del dramma (semmai davvero esso esista). E si rilanciano le responsabilità a settori altri che, in vero devono essere più accorti, ma che nulla hanno a che vedere, se considerati in solitaria, con le decisioni prese dall’Alto.
E intanto come un sibilo torna a soffiare il riproporsi della panacea all’odierno male Scuola in tempo di Covid-19: la DAD o DI, che si voglia. Con la sola differenza, che questa volta non è semplicemente una sperimentazione, ma una esecuzione appieno della didattica che trova sua diversità semplicemente nella assenza di contatto fisico con l’altro (che nel nostro caso sono gli alunni). E fin qui nessun problema (forse!?).
Il quid nasce se si prende consapevolezza che ci sono utenze lontane da ogni idea, specialmente in merito alcune discipline.
Chi scrive insegna Laboratorio di Informatica, e chi scrive lavora in una delle tante periferie del Sud. Periferie ricche di intelligenze dagli occhi sveglissimi e brillanti, ma rilegate nel dentro di un sistema la cui povertà (non soltanto economica) traccia il solco di un limite entro il quale è possibile muoversi, e oltre il quale tanto c’è da fare per investire domani. Sperando che almeno qualche seme cada sulla terra e produca il suo frutto. E per cui i punti di partenza su cui lavorare ben lungi dall’essere quelli delineati dalla programmazione ministeriale che resta carta spoglia ricca di paroloni, talvolta anche incomprensibili per chi vive di essi e con essi, traducendo nel di fatto la volontà che essi esprimono.
Dinanzi a ciò, la DAd o la DI, si risolve in un fallimento la cui possibile soluzione è la promozione, come fosse una partita vinta a tavolino: senza gioco.
Detta così, lascia poco alla comprensione del messaggio che vorrei arrivasse. Ma mentre scrivo ho presente alunni totalmente lontani dalla sola idea di cosa fosse e di come si lavora su una tastiera, e pertanto spiegare e lavorare su un documento in Word o in Excel non è certo una cosa da poco: immaginatelo spostare il tutto sulla DAD o DI. Certo in qualche modo l’invettiva spinge a creare diapositive con la foto di una tastiera, e forse è già un buon inizio. Ma sufficiente?
Parlare parlare e decidere e raccomandare e ordinare a furia di decreti e ordinanze è cosa facile per chi resta seduto sulla poltrona decisionale, lontano un infinito dalla vita reale e feriale.
Cosa resta di questa Scuola. Cosa resta di queste intelligenze dagli occhi vivaci? Cosa resta della Scuola in questo mesto tempo di pandemia, di cui tutto è il contrario di tutto? E chi riconsegnerà i giorni dell’incontro e della conoscenza?
Non sono a sfavore della DAD o DI, attenzione. Ma sono fermamente contrario alla modalità con la quale si vuole trasmettere il messaggio. Contrario alle scelte non dettate dall’in sé della Scuola. Ma decisioni la cui natura è lontanissima dalla verità e soprattutto dalla SCUOLA, benché la dialettica vuole regalarci un volto sensibile e attento a tale mondo.
Paghiamo forse tutti le politiche scolastiche che da decenni hanno detratto fondi e non soltanto al pianeta Scuola, e alla stessa Università, traendo gli stessi (fondi) dalle tasche dei diretti addetti ai lavori, nella loro utenza, grazie a corsi, TFA, SIS, e quanto altro, e che si risolvono in un fallimento se poi non sono riconosciuti quali elementi sufficienti alla qualità che il prodotto docenza richiede, almeno da parte del MIUR.
Politiche scolastiche che consegnano il volto sfregiato della cultura, di quel sapere sul quale si fonda, poggia e si emancipa il pensiero: quell’intelligenza weilliniana che con i mezzi adeguati si rende libera di esprimersi.
Mario Santoro
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