“I giovani hanno bisogno di guide culturali. Lo scopo della scuola è addestrare al senso critico….Spesso tra docenti e studenti manca un coinvolgimento emotivo, come se la scuola fosse solo una trasmissione di nozioni…”.
Questa, in massima sintesi, la risposta dell’intellettuale Galimberti alla lettera (recente) di una studentessa che, rivolgendosi al noto professore, lamentava la mancanza di un vero rapporto tra docenti e studenti e la riduzione della scuola a mero nozionismo. Mi stupisco sempre davanti a queste affermazioni quando considero che da anni, direi decenni, si discute sul ruolo della scuola e il delicato compito degli insegnanti a livello istituzionale e sociale proprio per offrire alla comunità un nuovo e più interattivo modello scolastico.
Le giuste osservazioni del filosofo sono ripetute da tutti gli esperti ormai da molti lustri e più volte il Legislatore è intervenuto proprio per attuare concretamente un cambiamento del sistema scolastico, improntandolo ad una maggiore dialettica (pur nella differenza di ruoli) tra insegnante e studenti e ad un superamento della concezione della lezione (frontale) solo come mera trasmissione di preconfezionate nozioni per farla diventare un momento di forte stimolo alla riflessione, alla ricerca, all’argomentazione, al confronto libero e all’esercizio critico.
Non conosco i motivi di doglianza (non priva di ‘involontario’ e stereotipato vittimismo) della giovane studentessa e mi astengo, quindi, da ogni considerazione sul caso. In generale, però, pensare agli insegnanti come automi o robot che parlano in modo freddo, autoritario, asseverativo e perentorio (senza lasciare spazio ad altri punti di vista) o obbligano i poveri giovani ad subire ed accettare passivamente (senza dar loro la possibilità di pensare) il loro ‘verbo’ è, attualmente (e non solo attualmente), completamente sbagliato (i professori androidi, le macchine artificiali e autoritarie verranno fra breve, forse, per ora siamo ancora umani)
Chi opera nella scuola, chi veramente ogni giorno vive in classe e vive ‘la classe’, sa benissimo che insegnare presuppone innanzitutto, per quanto possibile, una conoscenza dei ragazzi, la capacità di instaurare con loro un dialogo e la necessità (non oltre una certa soglia) ‘naturale’ di un coinvolgimento emotivo, chiamiamolo pure empatia. Chi si muove tra i ragazzi e con i ragazzi sa molto bene che, per svolgere correttamente la sua paziente ‘missione’ educativa (spesso faticosa e consuntiva ma allo stesso modo anche inaspettatamente gratificante) deve essere pronto e desideroso di dare spazio alle loro idee e ai loro sentimenti.
Insegnare è un cammino che si svolge insieme, senza distacco (ognuno, però, nel suo ruolo), è un percorso di ragione e passione, di idee e sentimenti di confronti, concordanze, divergenze e anche opposizioni. Percorso duro certo, se fatto bene, però, può portare in alto.
Occorre, invero, fissare almeno due regole nella dinamica e cangiante relazione docente-studente.
1) Un minimo di lezione frontale e nozionismo, né freddi né asettici, sono fondamentali (voti e programmi ormai contano poco). E’ vero che educare non significa “riempire un secchio ma accendere un fuoco” (W.B. Yeats), ma per accendere anche solo un piccolo fuoco, una sottile fiamma, occorre quel ‘quid’ giusto che solo un professore può dare. Poi ogni discente potrà, da solo o in sinergia con gli altri (compagni o lo stesso professore), far sì che la ‘parva’ favella diventi grande ‘flamma’.
2) Nel processo formativo l’educazione (l’educazione di base, quella che le famiglie dovrebbero dare) è fondamentale. Ci sono tempi (anche brevi) di ascolto e tempi di intelligente e non disordinato (ma efficace e produttivo) dialogo (questo vale anche per il professore, ora parla e ora ascolta). Che non ci sia, però, ‘caos’ o ‘anarchia’, anche se a volte (occorre dirlo) dalla confusione si passa, se il professore si dimostra una buona guida, alla silenziosa riflessione, per approdare, infine, ad eccellenti risultati
La mia esperienza e le esperienze riferite dai colleghi mi portano a ritenere che, generalmente, non esistono più le divisioni ferree e rigide di una volta. Si cresce e si cambia insieme (pur nel rispetto di età e compiti non uguali). Spesso, addirittura, non esiste alcuna divisione e questo potrebbe essere un male e frenare l’azione formativa della scuola. Sappiamo tutti: ‘In medio stat virtus’ (ma il ‘medium’ è un dato oggettivo?).
Comunque l’ottima e doverosa risposta del filosofo alla studentessa non dice nulla di nuovo.
Si consideri invece questo: per poter essere coinvolti, entusiasmati, appassionati, stimolati, animati, appassionati e interessati i giovani (dovrebbe essere naturale) devono avere desiderio e curiosità di sapere già dai primi anni di scuola.
Desiderio e volontà di conoscere anche con fatica, perseveranza e sudore. Tale desiderio in parte è congenito al genere umano, in parte deve essere implementato, fin dai primi anni di vita, dai genitori. Ma questo accade per tutti? E poi, quando il giovane ha la possibilità di osservare (non sempre apprendere) ogni cosa senza alcun sforzo, se non quello di schiacciare un ‘mouse’, rimane in lui o in lei il senso del sacrificio e della fatica della conquista?
La tecnologia e Intelligenza Artificiale possono rappresentare un ampio mare che apre ad altri infiniti mari o oceani non sempre facili da navigare. Ma possono essere considerati da molti giovani come un grande e calmo lago a cui girare intorno, per poi sdraiarsi sulla sua riva e aspettare o anche solo riposare. O no?
Andrea Ceriani
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