In una intervista al quotidiano “ La Repubblica”, pubblicata l’8 gennaio 2016 ( a pag. 20 dell’inserto domenicale “Robinson”), Andreas Schleicher, fondatore e responsabile del Programma per la valutazione internazionale dell’allievo, noto con l’acronimo PISA, lodava l’iniziativa di alcuni insegnanti di Shangai, cui riconosceva il merito di usare una piattaforma digitale per il loro piano delle lezioni.
“Più le lezioni di un insegnante erano scaricate dai suoi colleghi- che erano liberi di criticarle o di aggiungere miglioramenti- più cresceva la sua reputazione. Alla fine dell’anno scolastico, al preside non interessava soltanto quanto un docente avesse insegnato ai suoi studenti, ma anche quali contributi avesse dato al miglioramento del sistema educativo. Questo interscambio dei metodi di insegnamento più efficaci rende gli insegnanti una gigantesca comunità open source di talenti creativi, fondata semplicemente sul desiderio di contribuire e trarne riconoscimento”.
Il “ Ministro planetario dell’Istruzione” lamentava, invece, come punto debole del sistema educativo italiano “ la scarsa cultura collaborativa nelle scuole”. Difficile dargli torto! Noi insegnanti assomigliamo sempre più a delle monadi autoreferenziali , sfiduciati o comunque restii al lavoro di squadra , al confronto, alla condivisione , allo scambio di idee. Voglio cominciare proprio dall’ interessante riflessione di Schleicher per dare il mio modesto contributo al dibattito su una più efficace metodologia didattica, in particolare delle Materie Letterarie nei Licei. Si discute tanto , negli ultimi tempi, di nuove tecniche di insegnamento, come la “classe capovolta” ( ne era fautore il compianto linguista Tullio De Mauro)o il “digital storytelling”.
Strategie condivisibili, purché si rivelino utili a perseguire l’obiettivo, sempre più difficile, di coinvolgere i giovani nello studio, di trasmettere loro il piacere della lettura , di suscitare interesse e curiosità verso discipline come quelle letterarie che è scontato dire quanto siano appassionanti per noi docenti , ma che ai nostri alunni, talvolta,possono risultare ostiche. L’approccio che propongo è quello che personalmente ho ereditato dalla mia formazione universitaria, in particolare dalle lezioni dell’ indimenticabile professore di Letteratura Latina alla Federico II di Napoli, Salvatore D’Elia. Agli studenti che ,come me , dovevano preparare l’esame di Latino 1, disorientati dal fatto di non trovare indicato sulla guida dello studente nessun manuale di letteratura, ma la semplice dicitura “ un buon manuale di letteratura”, egli candidamente consigliava di non porsi il problema, visto che i dati sugli autori avremmo potuto trovarli su qualsiasi libro:“ Ciò che, piuttosto, importa – ci diceva– è leggere i testi !”.
Mi scuso per aver raccontato quest’episodio che può sembrare aneddotico, ma che per me riveste una imprescindibile valenza didattica, corroborata da un pensiero del già citato De Mauro : “ (ai ragazzi) non è dato il bene di vedere direttamente, come spesso succede nelle nostre scuole:non vedono quello di cui si parla, i testi, ma vedono il manuale che parla dei testi” ( in “ Il linguaggio della Costituzione”, Atti del Convegno del Senato della Repubblica del 16/06/2008) .
Da insegnante di Lettere al triennio del Liceo Scientifico,ho sempre trovato che i manuali in adozione siano pensati e scritti più per i conoscitori, per gli specialisti della materia , per noi professori che non per lettori di sedici/ diciannove anni i quali, magari per la prima volta, si accostano allo studio della letteratura. Quante parole, quante pagine , quanti paragrafi e capitoli su di un autore, spesso espressi in un linguaggio tecnico astruso, ripetitivo, stancante , che non può che risultare criptico per i nostri giovani, con il desolante risultato che , in questo modo, non solo non si riesce a suscitare curiosità e interesse per la disciplina, ma molte volte si rischia un vero e proprio rigetto! E se, invece, provassimo a partire direttamente dal testo? Non lo sosteneva anche Italo Calvino? A tal proposito, mi piace qui ricordare un illuminante passo del suo noto saggio “ Perché leggere i classici” ( ed. Oscar Mondadori, pag. 8): “… non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C’è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l’introduzione, l’apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne più di lui”.
E se provassimo a ricominciare da qui ? E se, scansando i manuali scolastici, provassimo a “ far parlare i testi”? Propongo un esempio tratto dalla quotidiana sperimentazione didattica. Mettiamo il caso di essere stati assegnati ad una classe IV che con grammatica e sintassi non ha tanta dimestichezza. Anche le Indicazioni Nazionali, però, ci vengono in aiuto: “ Non si tralascerà di arricchire la conoscenza delle opere con ampie letture in traduzione italiana” ( Indicazioni Nazionali per i Licei Scientifici, pag. 23) .
Non priveremo, pertanto,i nostri alunni della lettura di una delle pagine più alte di poesia che siano mai state scritte in tutti i tempi, non permetteremo che i nostri alunni studino l’Eneide di Virgilio ignorando chi siano Lauso e Mezenzio. E allora , come procedere? Immergendo subito la classe nella lettura del relativo brano del libro X del poema in una buona traduzione italiana? Sì, certamente … ma perché non cominciare dalla definizione che di Enea ha dato un grande studioso, Salvatore Battaglia? Egli ebbe a dire che Enea è “il rappresentante più evoluto dell’ antichità”. Può stupire una definizione del genere riguardo a un personaggio che è pur sempre un guerriero, tra l’altro insensibile al dramma di una donna , Didone, che, dopo averlo accolto esule nella sua reggia ed essersene perdutamente innamorata , dimentica del giuramento fatto al marito Sicheo, si vede abbandonata da lui e cade in una disperazione tale da condurla al suicidio. Eppure, mai definizione fu più azzeccata … Ci aiuta a capirne il senso la lettura del passo del libro X , quello dove viene narrato il duello tra Enea e Lauso. Quest’ultimo è il nome del giovane “ di cui più altri più bello / non era, fuorché la figura solo del laurente Turno” ( VII, vv. 649-650, trad. di R. Scarcia), “ degno di non avere per genitore Mezenzio” ( v. 654). Era costui uno spietatissimo tiranno etrusco: “Contemptor divom” ( Sprezzatore degli dei) è l’epiteto con cui Virgilio lo apostrofa più volte , con una voluta contrapposizione al pius Aeneas . Faceva, addirittura, morire i suoi nemici legandoli a cadaveri in putrefazione, condannandoli , in tal modo, ad una lenta e disumana agonia ( VIII, vv.483- 488). Ma torniamo al duello tra Enea e Lauso. Quando l’eroe troiano uccide il giovane , che era intervenuto a difendere il padre ferito mortalmente, vede, per un attimo, nel volto di Lauso morente il volto di suo figlio Ascanio. E’ un verso che fa davvero venire i brividi: et mentem patriae strinxit pietatis imago ( v. 824: “ e invase il suo animo il riflesso di una pietà di padre”). Scosso da tale visione , Enea solleva il cadavere del giovane da terra, gli pulisce i capelli sporchi di fango e terriccio, lo restituisce al suo popolo.
Quanto siamo lontani dai personaggi dell’epica greca! Perché i nostri alunni ne prendano consapevolezza, basta far confrontare i versi appena letti con quelli del libro XI dell’Iliade, dove è descritta la terribile reazione di Achille alla notizia dell’uccisione dell’ amico Patroclo: per dar sfogo alla sua rabbia , il Pelide non esita a vendicarsi sgozzando barbaramente dodici giovani Troiani . Nel passo virgiliano, al contrario, quanta pietà! Anzi, si va ben oltre: si riconosce nel nemico un altro essere umano, il proprio simile, nientemeno che il proprio figlio! Traspare in questi versi una sensibilità “cristiana” a dir poco stupefacente in un autore pagano quale Virgilio. Tornando, quindi, alla definizione di Enea dalla quale siamo partiti, possiamo finalmente far comprendere ai nostri allievi perché Battaglia lo consideri “ il personaggio più evoluto della civiltà antica”: intende dire che l’eroe virgiliano segna un passo avanti nel processo di evoluzione di una sensibilità autenticamente umana.
Se, poi,volessimo continuare a intrigare i nostri studenti, spronandoli ancor di più allo studio della vera letteratura, potremmo proporre loro – perché no?- la conclusione del libro X. Qui, Mezenzio, pur ferito ad una gamba, dopo che gli è stato portato il cadavere di Lauso, va “moriturus” ( v. 881) ( “ per morire”, “desideroso di morire, deciso a morire”) ad affrontare per l’ultima volta Enea , avendo ormai perso qualsiasi ragione per continuare a vivere. Quanta poesia in quel moriturus! Uno dei personaggi più crudeli, quello che potremmo definire l’anti- Enea, si è rivelato , alla fine , un padre legato da uno straordinario amore al figlio : il poeta latino ce ne ha fatto scoprire l’ immensa umanità e sentire, in tutta la sua drammaticità,il fallimento sia come uomo sia come padre. Solo un grande autore quale Virgilio poteva lasciare alle future generazioni questa emozionante e immortale pagina di poesia della cui lettura sarebbe veramente un peccato privare i nostri alunni !
Giuseppe Scafuro
Docente di Italiano e Latino
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