Cosa resterà di questa stagione della scuola che vede aule e corridoi desolatamente vuoti, e di contro il frenetico picchiettare dei polpastrelli dei docenti sulle tastiere dei loro pc, e la rapsodica attenzione degli studenti, gli uni e gli altri reclusi nelle loro abitazioni? Cosa resterà, qualcuno potrebbe obbiettare, di questa stagione della nostra vita … Ma occupiamoci di una cosa per volta, cominciando da quella più prossima: per noi gente di scuola, la scuola appunto.
Una prima osservazione di natura apparentemente giuridica, ma non solo tale: tra le diverse declinazioni della DAD (didattica a distanza, per i pochi che ancora non lo sapessero) è il docente che sceglie quella a lui più confacente o meno ostica. È lui che decide, dunque, se offrirsi in video alla sua classe in modalità live o on demand (magari allestendo una degna scenografia per la sua prestazione) o piuttosto se limitarsi a comunicare per mezzo della posta elettronica inviando schemi, esercitazioni, verifiche, testi.
E sul punto dobbiamo ringraziare i padri costituenti che introdussero nella Carta – qualunque sia stato il motivo per cui lo fecero – il benemerito art. 33: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Nonostante la sua genericissima formulazione, o forse proprio grazie ad essa, questo articolo è stato scudo ed usbergo alla classe docente nei decenni repubblicani, e se neppure la renziana legge 107 è riuscita a fare degli insegnanti delle marionette completamente manovrate da sua maestà il Dirigente, lo dobbiamo ad esso.
E infine nell’odierna temperie tale principio consente ai docenti di scegliere il canale di comunicazione a loro più confacente, evitando la generale trasformazione da corpo docente a gregge telematico.
Una seconda osservazione riguarda espressamente il dopo. Non vorremmo che l’eccezione diventasse abitudine, e l’abitudine prassi. Non vorremmo cioè che la DAD diventasse un uso corrente, tale da integrare in modo invasivo l’attività scolastica intra moenia. Non è la nostra una preoccupazione superflua, anche tenuto conto dei risparmi che tale operazione favorirebbe.
La scuola è uno spazio sacro nel senso antropologico dell’espressione, cioè uno spazio in cui l’ essere umano vive un’esperienza forte, coinvolgente, che lo forma e lo segna indelebilmente nella sua crescita.
Come tale vi si celebrano dei riti, quali il suono della campanella, quale l’alzarsi in piedi all’ingresso in aula del docente, quale la giustificazione dell’assenza, che ritmano i tempi di questa crescita. L’ingresso massivo della DAD nell’istituzione, il partecipare a quest’ultima dalla prospettiva del divano di casa, ne determinerebbe la sua almeno parziale liquefazione all’interno della ordinarietà della vita, con conseguenze sul piano dell’istruzione e dell’educazione che lasciamo volentieri all’attenzione dei posteri.
Tutto questo, al di là e al di sopra dei numerosi e gravi inconvenienti che la pratica e la cronaca già oggi palesano: dalla difficoltà di governare on line i meccanismi di apprendimento della grafia nella primaria all’uso improprio che possono fare certi studenti (se tali li si vuole definire) delle immagini dei loro docenti catturate on line.
Dunque rimanga la diffusione della DAD quello che è: un’ esperienza transitoria legata alla drammatica pagina di storia patria, non certo l’alternativa a quella scuola in cui insegnante e studente si guardano dritto negli occhi.
Alfonso Indelicato