Una bella novità del mondo della scuola riguarda l’obbligo di presentare i CV da parte dei nuovi docenti, in vista della “chiamata diretta” da parte delle scuole. Anche se, lo sappiamo tutti, il vero punto qualificante di tutto il mondo del lavoro è il colloquio, il faccia a faccia, non per alimentare logiche del sospetto, ma perché è il momento nel quale una persona che si candida ad un posto del lavoro mostra o mette in evidenza non solo gli aspetti delle conoscenze, ma soprattutto il “saper fare”.
Questo dovrebbe valere per tutti i docenti, ma anche per i presidi che aspirano ad una scuola, ai dsga e a tutti gli amministrativi. Basta gli automatismi che negano il valore delle persone!
I nostri giovani migliori, oramai abituati a confrontarsi col mondo del lavoro “globale”, queste cose le sanno già, mentre per il nostro mondo della scuola si tratta di novità, positive, importanti, che dicono il salto qualitativo in atto. Di contro al vecchio modello assistenzialista. Questo ci dice il confine del mondo del lavoro italiano, ancora troppo angusto e vincolato a vecchie pratiche di “occupazione dei posti di lavoro” più che a forme di qualità di un “servizio”.
Per questa finalità qualitativa, sarebbe importante, al di là del vecchio CV europass, prevedere il “libretto dei saperi”, una sorta di curriculum vitae in grado di riassumere il percorso formativo e le esperienze dei nostri giovani, costruito in termini di certificazioni conseguite sulla base di un sistema nazionale scandito da alcun standard minimi.
L’obiettivo è semplice: costruire la mappa completa che un candidato a una professione è in grado di mettere in evidenza in termini di competenze acquisite – formali, informali e non-formali. Cioè, non solo le certificazioni conseguite attraverso percorsi di studio, ma anche le competenze maturate in altra forma, con l’apprendimento permanente o attraverso esperienze non-formali.
Ricordo che sperimentazioni di questo “libretto dei saperi” sono state fatte nel recente passato in alcune regioni italiane negli anni scorsi. Penso qui al “portfolio delle competenze” legato a progetti in rete promossi dalla Regione Veneto. Il governo, al di là dei tentativi del ministro Profumo col governo Monti, dovrebbe riprendere questa strada, per uno strumento che indichi gli standard minimi necessari per il riconoscimento delle diverse competenze, da riassumere in questo “libretto”, che accompagnerà il lavoratore, continuamente aggiornato, nel proprio percorso di vita. Tutti i lavoratori, pubblici e privati. Compresa quindi anche la scuola.
Lo possiamo dire, un passo in avanti importante, anche rispetto alle tradizionali modalità di auto-presentazione del proprio “curriculum vitae”, cioè delle proprie conoscenze, competenze, capacità, passioni, esperienze. Un passo in avanti anche rispetto all’Europass. Da alcuni anni, infatti, come modello per la costruzione di questo “curriculum vitae” (CV) viene utilizzato il formato europeo, cioè l’Europass. Avere un modello di riferimento, l’abbiamo tutti compreso, è importante, ma non basta. Nel senso che nessun modello standard può offrire garanzie di risultato. Perché non basta cioè mettere in fila le tappe del proprio percorso scolastico e formativo, comprese le prime esperienze lavorative. Ci vuole la personalizzazione, anche se non è facile scrivere il CV per se stessi, perché dovrebbe, a chi legge, dare l’idea dell’oggettività, della trasparenza, dell’informazione completa ed efficace.
Tutte cose necessarie, ma non sufficienti. Il motivo è evidente: il CV va scritto in relazione al proprio percorso di studio, di vita, di esperienze, ma in relazione anche al contesto (pubblico o privato) destinatario della propria offerta di lavoro. “In relazione al contesto”: perché, come mi capita di ripetere spesso a gruppi di giovani, è attraverso un adeguato CV che ci si presenta al mondo del lavoro, ben prima di un colloquio de visu.
Diverso, ad esempio, deve essere il CV se rivolto a un Paese nordico o a un Paese mediterraneo. Per un’azienda inglese, provare per credere, non è necessaria la data di nascita, considerata discriminatoria: non si trovano richieste del tipo “si richiede candidato under 30” o “bella presenza”. Mentre negli Usa inserire i loghi delle realtà nelle quali si è lavorato è un valore aggiunto. In quale lingua, poi? Una in inglese e un’altra nella lingua del selezionatore o responsabile del personale. Fondamentali poi sono i certificati in lingua straniera, i nominativi da contattare per eventuali referenze e l’elenco degli stage curriculari. Un CV, perciò, “in-relazione”.
Il giovane interessato a una proposta di lavoro deve non solo dire chi è e le proprie competenze ed esperienze, ma deve far capire, alla fin fine, se possiede proposte originali o idee innovative da proporre. Un CV, poi, dovrebbe rimandare ad altri strumenti di comunicazione, magari un blog tematico (oppure i “social network”). Che faccia intendere, in poche parole, tutto un lavorio di fondo che rende la propria competenza davvero un valore aggiunto per un servizio, per una azienda, per uno studio professionale, per un contesto di lavoro di gruppo. Perché tre sono le caratteristiche oggi richieste ai giovani: dimostrarsi svegli e interessati alle continue innovazioni, disponibili a lavorare in gruppo, umili e disposti a imparare da tutti.
In Europa, a dar retta a un recente intervento apparso sul The Guardian, il 30% circa delle nuove assunzioni avviene attraverso la Rete informatica, nei siti specializzati. In Italia siamo circa al 10%: da un’indagine empirica svolta nei giorni scorsi è emerso che siamo attorno al 18% di assunzione previo contatto e verifica su internet. Percentuali che cresceranno, se pensiamo che solo il sito Linkedin ha, nel nostro Paese, 1,7 milioni di iscritti. Un grande parterre. Ma da noi il canale per essere assunti resta ancora, per il 25%, il passaparola, cioè la conoscenza personale. Una percentuale destinata a lasciare il passo ai nuovi metodi di approccio e di verifica, come attesta Almalaurea dell’Università di Bologna.
A fare da cornice, l’Albo delle competenze, legittimato da “enti titolati”, come Camere di commercio, scuole, università, enti di formazione. Con indicati gli standard minimi che gli enti certificatori dovranno rispettare, validi su tutto il territorio nazionale, standard intesi come “livelli essenziali di prestazione” (Lep): definiscono le conoscenze e abilità necessari per una certa professione, gli obiettivi di apprendimento, il contenuto, i requisiti di accesso, i livelli di risultato, le modalità per ottenere un certificato. Uno strumento utile, quindi, per chi si candida e per tutto il mondo del lavoro.
Resta infine lo snodo, mai affrontato in Italia: l’abolizione del valore legale del titolo di studio. È strano il totale silenzio delle forze politiche.
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