Al momento tutti ignorano il programma del nascituro governo Draghi e già la scuola è finita al centro, non dell’attenzione e delle priorità, ma delle reazioni preoccupate e delle prime polemiche.
Dopo un anno che è andato come è andato, fra acquisti di arredi scolastici inutili, sui quali pesa l’immagine negativa dello spreco di denaro pubblico, chiusure/aperture, Dad/presenza, problemi logistici, problemi di trasporti, il virus che circola subdolamente anche negli ambienti scolastici (come ci dicono i monitoraggi fatti dalle Regioni), ci si sarebbe aspettati, prima di tutto, un “vogliamo riaprire in sicurezza”, con test, vaccini, interventi migliorativi sui trasporti, e soprattutto investimenti veri, di cui le aule necessitano enormemente, con meno alunni ammassati e impianti di areazione efficienti sia in inverno sia in estate, se si vuole davvero prolungare il calendario scolastico, almeno per certe attività formative specifiche.
Ci si sarebbe aspettati un “vogliamo valorizzare l’autonomia delle scuole e il loro rapporto col territorio”. Chi meglio delle scuole stesse può sapere come sono andate le cose in quest’anno scolastico, quanti e quali alunni avrebbero bisogno di attività di sostegno o recupero, quanti e quali alunni avrebbero bisogno di attività integrative di laboratorio, di indirizzo, di progetti particolari in accordo con i bisogni espressi dal territorio? Sono o non sono le istituzioni scolastiche i soggetti deputati a garantire il successo formativo degli alunni attraverso la propria autonomia didattica, organizzativa, di ricerca, sperimentazione e sviluppo?
Ci sarebbe aspettati un “vogliamo procurare risorse alle scuole” per contribuire davvero a fare dell’istruzione e della formazione una priorità sociale per i nostri giovani, per dedicare loro quell’attenzione che finora non hanno avuto, per fornire un’educazione valoriale utile a vivere e orientarsi nel mondo d’oggi, per sviluppare concretamente quelle competenze che spesso restano un elenco prolisso e retorico di parole scritte su pagine e pagine di documenti che nessuno conosce, spesso fatti addirittura con il copia-incolla solo perché obbligatori.
Ci si sarebbe aspettati un “vogliamo investire sul capitale umano”. Magari si cominciasse il prossimo anno scolastico con una copertura soddisfacente degli organici! Ma non è solo questione di numeri e di posti. Per valorizzare il capitale umano serve prima di tutto una formazione qualificata, che va considerata come parte integrante del lavoro stesso del docente, tanto quanto l’attività collegiale o quella individuale di preparazione e di valutazione. È ora che tutto questo “lavoro sommerso” venga puntualmente quantificato e retribuito. Non possiamo sentire continuamente ripetere in televisione o sui media, da gente pur quotatissima nel proprio ambito, che gli insegnanti fanno “solo” 18 o 21 ore di lavoro, e che questo è “scandaloso” perché gli altri lavoratori ne fanno il doppio.
Ci si sarebbe aspettati un “vogliamo investire su ricerca e sviluppo”. La nostra Università non brilla a livello europeo, i professori sono fra i più anziani d’Europa e il numero di laureati è basso. Quanto agli investimenti per la ricerca, in ambito Ocse l’Italia è al ventisettesimo posto, con un misero 1,4% del Pil (come l’Ungheria). Se vogliamo offrire più chance ai nostri giovani questo settore deve essere attenzionato e potenziato, specialmente adesso con le risorse del Next Generation EU, che il nascituro governo dovrebbe accortamente attivare.
Ci sarebbe aspettati un “vogliamo capire i bisogni, vogliamo ascoltare”. Sappiamo bene, da gente di scuola, che mettere d’accordo tutti è un’impresa impossibile per chiunque, perché, generalmente, prevale l’interesse particolare, sia da parte di chi ci lavora, sia da parte delle famiglie. La parola “comunità” è la più ripetuta nei documenti, ma rappresenta forse un ideale irraggiungibile. Tuttavia, partendo dai bisogni reali e dai dati oggettivi che ogni scuola possiede, è senz’altro possibile prendere in mano la situazione, impegnarsi nel miglioramento, fissare dei traguardi.
Serve però la competenza da parte di chi è chiamato a guidare un sistema così complesso. Competenza vuol dire conoscere bene la macchina e i suoi ingranaggi, avere visione, cioè tenere ben chiara la meta da raggiungere, e saper spendere le risorse per ottenere concretamente i risultati attesi. Serve anche capacità di ascolto e di mediazione, pur senza perdere mai di vista l’obiettivo, proprio perché il sistema è difficile da governare.
La gente di scuola, che negli ultimi 20 anni ha visto e subìto di tutto, sa benissimo che solo una personalità di alto spessore culturale, professionale e umano, e competente del settore, potrebbe essere in grado di guidare un ministero così importante. Che sia un tecnico o un politico non importa, conta solo la competenza.