Alunni

Occupazioni studentesche, la lettera dei docenti: “Le noiose lezioni vi educano alla libertà, non i tornei di briscola”

Da qualche giorno alcune scuole italiane sono protagoniste di occupazioni e autogestioni da parte dei propri studenti. Le ragioni sono diverse, al centro c’è sicuramente la volontà di cambiamenti concreti contro l’attuale gestione del sistema scolastico del Governo. L’Anp ha immediatamente messo le carte in tavola, manifestando il dissenso da parte dei dirigenti scolastici. Anche alcuni docenti si sono uniti all’appello, in particolare quelli del Liceo Copernico, che in una lettera pubblica da Repubblica hanno voluto far sapere agli studenti (e non solo) che nonostante rispettino la loro scelta, la scuola ha bisogno di andare avanti.

Ecco la lettera integrale.

Cari studenti e studentesse, cari genitori, cari tutti quanti e quante hanno a cuore le sorti della scuola,

non abbiamo parlato sin qui, se non occasionalmente con alcuni studenti e per lo più a titolo personale, ma abbiamo osservato quanto accadeva a scuola e ascoltato quanto si diceva sulle ragioni dell’occupazione e sull’organizzazione di queste giornate. A questo punto sentiamo anche noi non solo la necessità, ma il dovere di esprimere la nostra opinione. Tralasciamo i pareri o i giudizi, oramai più e più volte espressi anche in passato, sullo strumento di protesta, come pure la benevolenza con cui si è detto – amplificato dalla stampa – che oggetto della contestazione non è la nostra scuola né chi la dirige né il corpo docente. Resta il fatto che la scuola è stata occupata per cinque giorni e le ragioni sono state rese note attraverso un documento diffuso dai promotori che aveva al centro le seguenti motivazioni: questione palestinese, violenza di genere, condizione degli studenti in una scuola, quella italiana, sempre più sprovvista di risorse economiche, una scuola “gabbia” e fondata sul “merito”, un ambiente fonte di ansia e di malessere per i giovani. Senza tralasciare l’insoddisfazione per le attività di PCTO. Non sono poi mancati, oralmente, proclami sull’esigenza diffusa che a scuola si parli di “attualità”, si tralascino programmi e saperi oramai stantii per concentrarsi sulla storia e sulla cultura recenti, si riducano drasticamente le così dette “lezioni frontali” a vantaggio di una didattica diversa e più “coinvolgente”.

Eravamo rimasti all’occupazione dello scorso anno, differente non soltanto per la stagione dell’anno in cui si celebrava – allora primavera, oggi, tornando ad antichi rituali, in autunno – ma perché si era conclusa con un proficuo confronto tra studenti e docenti, che aveva avuto come primo esito la formulazione e la compilazione di un questionario sul benessere a scuola. Un lavoro, questo, che si era potuto svolgere grazie all’impegno di un numerato gruppo di studenti e di alcuni docenti e approdato a una approfondita elaborazione dei dati e una relazione di 107 pagine sui risultati emersi. Da lì ci saremmo aspettati che si potesse ripartire con un dialogo franco, volto a individuare insieme proposte concrete. Oggi le ragioni e i risultati di quella originale e meritoria iniziativa appaiono già un’occasione perduta.

Prima dell’occupazione, che evidentemente era in aria e in animo, sono state fatte due assemblee d’istituto, in ottobre e in novembre (quella di novembre ha preceduto di soli due giorni l’inizio della protesta), e nessuno degli studenti ha ritenuto di dovere affiancare ai pur meritori dibattiti sulla violenza di genere, ai meno meritori tornei di briscola, giochi da tavola, jam sessions, tornei di calcetto, tornei di uncinetto, di dovere affiancare, si diceva, un momento di confronto e dibattito con i docenti che riprendesse le fila di quanto si era venuto costruendo nello scorso anno. Hanno occupato.

Forma di protesta usurata certo, ma che non cessa per questo di ledere i diritti di molti, soprattutto degli alunni più deboli. Il Liceo Copernico è per altro una scuola dove non si sono mai ignorate le proposte degli studenti interessati ad allargare lo sguardo a quanto avviene fuori: si sono svolti e si svolgono progetti orientati a renderli maggiormente consapevoli del mondo in cui vivono, si sono raccolte – perché era giusto farlo – le loro domande di discutere di avvenimenti contingenti e tali da richiamare una riflessione comune, si sono organizzati incontri con studiosi dei temi di volta involta posti all’attenzione, si sono sostituite ore di lezione tradizionali con momenti di discussione per richiamare gli studenti – anche quando la loro attenzione potesse apparire sbiadita – ad argomenti che cittadini responsabili non possono ignorare o guardare con superficialità. Ma vorremmo anche dire con risolutezza che non tutto può passare attraverso la scuola. La richiesta, che altri prima degli studenti sollecitano, di affidare ai docenti, poniamo, l’educazione alla cittadinanza, alla conoscenza di sé e, da ultimo, ai sentimenti e agli affetti, non può essere accolta da professionisti che disdegnino il pressapochismo, l’improvvisazione, il dilettantismo. Non perché questi aspetti non siano importanti, tutt’altro, ma perché è arrivato il momento di chiarire che tali sacrosante attitudini non meritano etichette burocratiche né sospensioni di un impegno didattico a cui si è vicendevolmente chiamati.

Ben vengano, naturalmente, momenti di riflessione su questioni centrali nella vita dei giovani e per la costruzione della loro identità, ma non possiamo assecondare l’inevitabile risultato di rendere uno dei valori fondamentali della scuola, la trasmissione e la promozione del sapere, un fatto residuale. Come non possiamo non ribadire la nostra responsabile indisponibilità a trattare argomenti sui quali sappiamo di non avere una preparazione adeguata. Le “noiose” lezioni di matematica, fisica, letteratura, storia dell’arte, filosofia, storia, cos’altro fanno se non cercare di formare i giovani alla precisione, al rispetto dei dati, all’educazione al bello e al buono, alla libertà e alla spregiudicatezza del pensiero, alla diffidenza verso i luoghi comuni? E non è stato, fra gli altri, uno studioso non sprovveduto del mondo interiore dei giovani come Massimo Recalcati a sostenere che uno degli strumenti migliori per educare agli affetti siano la lettura della poesia, il confronto con l’arte? Eppure, avevamo creduto che anche la lezione inaugurale dell’anno scolastico tenuta dal professor Ivano Dionigi avesse portato i nostri studenti a riflettere su quanto la scuola possa essere il luogo privilegiato della formazione dello spirito critico ,il contrappeso di certa modernità semplificata e polarizzata sul presente, sull’adesso, sul moderno, ea ragionare su quanto il novum abbia bisogno del notum. E anche delle “noiose lezioni frontali ”sarebbe opportuno che gli studenti tornassero a comprendere il senso, tanto più che saranno proprio quelle che, una volta usciti dal nido protetto della scuola, troveranno all’università. La scuola, di là da false mitologie, deve tornare a essere scuola, e le famiglie, quali che siano, a impegnarsi per un’educazione dei propri figli che non lasci in secondo piano la responsabilità dell’impegno, il rispetto delle istituzioni, la distinzione dei ruoli e delle competenze di ciascuno.

Redazione

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