Secondo i calcoli dell’Ocse gli attuali ventenni italiani andranno in pensione a 71 anni e sarà l’età di ritiro dal lavoro più alta dell’Ocse, dopo quella dei danesi che dovranno attendere fino ai 74 anni e sarà sopra la media dei Paesi industrializzati, stimata attorno a 65,5 anni.
L’Ocse in ogni caso raccomanda all’Italia di non toccare le norme sulle pensioni in vigore, in particolare il legame con l’aspettativa di vita. Nel 2013 la spesa per le pensioni in Italia era pari al 16,3% del Pil (14% in termini netti), inferiore solo al 17,4% della Grecia, pari a quasi il doppio della media Ocse (8,2%) e in aumento di quasi il 21% rispetto al 2000.
Intanto, da sola la spesa per le pensioni assorbe un terzo della spesa pubblica italiana (32% contro il 18% Ocse). Non solo, il tasso di contribuzione previdenziale, pari al 33% (9,2% da parte del dipendente e 23% da parte del datore di lavoro), è il più alto dell’intera Ocse (media 18,4%),
Attualmente, in Italia l’età normale di pensionamento, in media 66,6 anni per gli uomini e a 65,6 anni per le donne secondo il rapporto, supera già la media dell’area Ocse (64,3 e 63,4 anni rispettivamente) ed è la quarta più elevata tra i Paesi industrializzati.
L’Italia è e resterà di gran lunga uno dei Paesi più vecchi dell’Ocse. Al tempo stesso – altro aspetto su cui si sofferma il rapporto – attualmente gli anziani hanno redditi complessivi in Italia mediamente elevati: sono pari al 98,9% della media dei redditi nazionali se si considerano tutti gli over-65, ma raggiungono il 105,7% nella fascia 65-75 anni (Ocse 93%), per poi calare al 91,5% per gli over-75 (dove le donne che hanno di soliti redditi più bassi, sono più numerose degli uomini).
Il fisco, inoltre, è più clemente con le pensioni rispetto ai salari: la tassazione è al 29% sul reddito medio da lavoro, al 20% sulla pensione al tasso di sostituzione medio e del 23% sulla pensione di importo uguale al reddito medio da lavoro.
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