“Un cambiamento profondo di mentalità è in corso in tutto il mondo. Le persone ora riconoscono che il ‘progresso’ non dovrebbe portare solo crescita economica a tutti i costi, ma anche benessere e felicità”. Inizia così il comunicato delle Nazioni Unite, con cui nel luglio scorso ha fissato per il 20 marzo la Giornata Internazionale della Felicità. Che nel 2013 si festeggia per la prima volta. Perché una nazione più felice è anche una nazione più produttiva.
. A Palazzo di Vetro l’idea è venuta partendo dalla consapevolezza che i soldi non fanno la felicità. “Felicità è aiutare gli altri. Quando con le nostre azioni contribuiamo al bene comune, noi stessi ci arricchiamo. È la solidarietà che promuove la felicità”, scrive nel suo messaggio il Segretario generale Ban Ki-moon.
Uno dei primi ad ammettere che né il fine di una nazione né la soddisfazione di una persona risiedesse nel benessere economico fu Robert Kennedy nel 1968, durante un incontro con gli studenti dell’Università del Kansas. “Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro Paese – disse – Il Pil misura tutto eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta”.
Promotore iniziale della felicità tra la popolazione come parametro di sviluppo è stato il Bhutan, piccola nazione asiatica di 740mila abitanti tra le vette dell’Himalaya, in cui si misura il “Gross National Happiness”, la “Felicità nazionale lorda”, dagli anni Settanta. Un sistema di sviluppo innovativo, un processo che cerca non tanto di favorire la crescita economica ma di puntare all’incremento della felicità degli abitanti. “Un modello che costringe a una crescita infinita, su un pianeta con risorse limitate, non ha senso economico, mentre è la causa di azioni immorali e autodistruttive”, aveva dichiarato Jigmi Y. Thinley, primo ministro del Bhutan nel corso della conferenza delle Nazioni Unite. (Tg1)
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