È vero che chi lavora a scuola, se è riuscito a non perdere del tutto la passione “militante” che da principio lo ha motivato, svolge un’attività privilegiata. E non certo per i fantasiosi luoghi comuni di cui qualcuno (per fortuna, sempre meno!) favoleggia, ma per la profonda e costante relazione che si crea con le giovani generazioni di studenti.
Anche evitando romanticismi e narrazioni edulcorate, possiamo definire il lavoro a scuola come un osservatorio reale ed importante sulle vite e sugli orizzonti dei giovani nel Paese. Senza, tra l’altro, i filtri ed i condizionamenti che necessariamente si hanno nei rapporti all’interno delle famiglie.
Chi lavora a scuola conosce bene come la realtà quotidiana per i nostri ragazzi sia veramente triste: poche certezze o nessuna, mancanza di punti di riferimento e di esempi forti e credibili, di principi e di valori oltre a quelli che la famiglia riesce con difficoltà a proporre, angoscia per il futuro proprio e della collettività, senso di impotenza verso un presente che non piace e profonda sfiducia nelle possibilità di trasformare in meglio l’esistente. Un orizzonte dalle tinte fosche, desolato e desolante, con poche prospettive valide e coinvolgenti, dove i legittimi aneliti e le sacrosante aspettative delle coscienze giovanili in formazione si scontrano con la dura realtà che li circonda, che uccide sul nascere ogni idealità e che è governata da tristi pratiche: la raccomandazione, il familismo, la competizione esasperata, il rampantismo, l’indifferenza verso tutti e tutto.
Perciò mi pare assai significativa e civile la pietra d’inciampo che è stata posta pochi giorni fa a Vercelli davanti a tutte le scuole.
Ricorda il ragazzo quattordicenne del Mali, di cui non si conosce il nome, annegato nel Mediterraneo nell’aprile del 2015, mentre cercava di raggiungere l’Europa.
Una delle tante, troppe, spesso ragazzi e bambini, vittime del Mediterraneo nel tentativo di arrivare da noi con barconi di fortuna. Volti che spesso rimangono senza identità, di cui è difficile ricostruire la storia, ma di cui possiamo appena immaginare la disperazione delle condizioni e le aspirazioni ad una vita migliore di quella che hanno dovuto lasciare a casa loro. Il mare ci sta restituendo migliaia di corpi, morti per la sordità e l’indifferenza di chi dovremmo dare una mano a quelle speranze costruendo ponti ed approdi e non erigendo muri e chiusure.
Ma la storia del ragazzo del Mali parla ancor più direttamente a tutti coloro che nella scuola vivono e lavorano. Il medico legale durante l’autopsia ha trovato cucita nella tasca della giacca del ragazzo, per non perderla, la pagella ripiegata con cura. Era una pagella con i voti, tutti ottimi, delle materie scritte in arabo e francese: quella di uno studente bravo ed impegnato, che sicuramente riteneva quel foglio il migliore documento di identità per farsi accogliere, un prezioso biglietto di presentazione per il suo futuro, la prova dei suoi sforzi e delle sue capacità. Chi lavora e studia bene, mostra con orgoglio il frutto del suo impegno, i buoni risultati ottenuti, per suscitare legittimamente buona impressione ed apprezzamento nei suoi interlocutori, per avanzare in quegli studi che avrebbe voluto continuare nel nostro Paese o chissà dove in Europa.
Chissà quanti sogni, speranze, desideri in quel foglio ripiegato, che ansia di mostrare le proprie abilità, che voglia di vivere in luoghi dove si possa stare meglio, senza fame, guerre, epidemie, con più libertà, più giustizia. E quali pensieri avrà avuto la madre mentre ricuciva quella tasca, i sacrifici nel mettere da parte i soldi per il viaggio, le rinunce patite, la sofferenza per il distacco di un figlio, le aspettative materne. Illusioni di un domani diverso e migliore, naufragati drammaticamente.
Per questo sono importanti e dense di senso quelle pietre che da qualche giorno presidiano l’ingresso delle scuole di Vercelli, che ricordano quel ragazzo e dicono “ogni insegnante giusto lo avrebbe accolto”. Quelle pietre sono un monumento a quel ragazzo, lo rendono una presenza reale e dolorosa.
Quelle pietre sono pure un monito rivolto a noi, che nonostante tutto continuiamo a non abbandonare quella trincea di crescita e formazione, di democrazia ed eguaglianza, di sviluppo dell’autonomia di giudizi e dello spirito critico, come deve essere la scuola pubblica.
Ed anche a tutti gli studenti e le studentesse, ad impegnarsi con la necessaria serietà per contribuire a realizzare una società più giusta ed eguale, più accogliente, inclusiva, solidale. Per aprire prospettive di trasformazione dell’esistente, per tutti e tutte al di là di ogni differenza.
Per tutto questo mi sento di chiedere all’Amministrazione Comunale di Cosenza di seguire il bell’esempio di Vercelli e di apporre davanti le scuole cittadine di ogni ordine e grado la medesima iscrizione. Un gesto simbolico ma di grande civiltà, dal significato profondo, carico di umanità.
Ciccio Gaudio
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