Cresce l’indebitamento delle famiglie italiane nei confronti delle banche: la somma media per nucleo familiare è di 20.549 euro. La cifra – elaborata dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre, riferita al 31 dicembre 2017 – riguarda il debito originato dall’accensione di mutui per l’acquisto di una abitazione, prestiti personali o contro la cessione dello stipendio, aperture di credito in conto corrente. Sono inoltre incluse altre forme tecniche di prestito che, come indicato dalla Banca d’Italia, non sono specificate nelle statistiche: ad esempio le carte di credito o i prestiti su pegno.
Secondo l’associazione sindacale veneta, nell’insieme, i “passivi” accumulati con le banche e gli istituti finanziari ammontano a quasi 534 miliardi di euro.
Dal 2014 l’andamento è in costante crescita: in questi ultimi 3 anni, riferiscono gli Artigiani di Mestre, il debito è aumentato di 40,6 miliardi di euro (+8,2%) e in gran parte è riconducibile al fatto che gli istituti di credito sono tornati a prestare i soldi alle famiglie italiane.
Tra la fine del 2016 e la fine del 2017, ad esempio, gli impieghi bancari alle famiglie consumatrici per l’acquisto delle abitazioni sono aumentati dell’1,9%, mentre i dati del credito al consumo, includendo anche le finanziarie, indicano un +8,3.
Il dato è importante. Perché il 60% circa del Pil nazionale è riconducibile ai consumi dei nuclei familiari. E l’eventuale aumento dell’Iva, secondo la Cgia, potrebbe compromettere ulteriormente la tenuta economica di questi ultimi, soprattutto di quelli ubicati nelle realtà più in difficoltà d’Italia.
“Anche se fosse solo selettivo – dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia Paolo Zabeo – l’eventuale aumento dell’Iva peggiorerebbe, in particolar modo, la situazione economica delle famiglie meno abbienti. Segnalo, inoltre, che nemmeno l’operazione meno Irpef più Iva sarebbe a saldo zero. I 10 milioni di contribuenti Irpef che rientrano nella no tax area, tra i quali i disoccupati e coloro che percepiscono una pensione di invalidità, non avrebbero alcun benefico dall’introduzione della flat tax. Per contro, subirebbero un aumento dei prezzi di beni e servizi che toglierebbe loro ulteriore liquidità”.
Alla fine del 2017 le famiglie più “esposte” con le banche abitavano in Lombardia. Al primo posto quelle residenti nella provincia di Milano, con un debito di 29.595 euro; al secondo quelle di Monza-Brianza, con 29.078 euro e al terzo posto le residenti a Lodi, con 27.631 euro. Appena fuori dal podio troviamo Como: il debito medio ammontava a 27.501 euro. Negli ultimi posti della graduatoria nazionale, invece, riscontriamo le famiglie residenti nel profondo Sud, come quelle di Reggio Calabria, con un debito di 10.301 euro, quelle di Vibo Valentia, con 9.411.
Le famiglie meno indebitate d’Italia, infine, sono ubicate a Enna, con un “rosso” che si è attestato a 9.169 euro.
Il dato della Cgia di Mestre conferma che le famiglie italiane hanno estremo bisogno di soldi. E quelle dei dipendenti pubblici, non dirigenti, sono tra le più in difficoltà. Ne sanno qualcosa gli insegnanti, che, anche dopo l’aumento di giugno, pari 85 euro medi lordi, continuano a percepire in media sui 30 mila euro lordi: una somma che rimane abbondantemente ancora sotto l’inflazione ed inferiore, in Europa, solo a Grecia e Slovacchia.
Con il gap, a fine carriera, che rispetto alla media Ue risulta spaventosamente alto: oltre 10mila euro. Addirittura, i docenti della Germania quando vanno in pensione prendono circa il doppio.
Per il personale Ata, il conto piange ancora di più: con circa 22mila euro annui, assistenti amministrativi, tecnici e ausiliari si collocano infatti tra i dipendenti più poveri dell’amministrazione pubblica. Anche perchè le somme derivanti da premi accessori e impegni extra, da percepire solo attraverso il Fis, considerando che la premialità della Legge 107/15 non lo ha considerati, sono ridotte sempre più all’osso (il totale rimane collocato attorno alla metà delle somme del 2011).
Per loro, come per tutti i docenti neo-assunti e fino a metà carriera, una boccata d’ossigeno era giunto con il bonus di 80 euro introdotto dal governo Renzi. Dal Governo giungono versioni alterne, in particolare dalle distonie tra le dichiarazioni del ministro dell’Economia Giovanni Tria rispetto a quelle tranquillizzanti espresse dai vicepremier Luigi Da Maio e Matteo Salvini, tanto da far pensare uno scontro interno.
Di sicuro, comunque, è che l’idea di andare a rivedere gli 80 euro così come sono stati formulati dall’esecutivo Renzi, con l’importo massimo dei beneficiari collocato a 26.400 euro annui lordi, è perlomeno in discussione.
Il problema è che per finanziare da subito – con la legge di Bilancio – reddito di cittadinanza, flat tax e controriforma Fornero, seppure sotto forma di “assaggi”, occorrono diversi miliardi di euro: si parla addirittura di quasi 27 miliardi.
Nelle ultime ore è circolata la notizia che al Mef si lavora all’ipotesi di rivedere alcune le aliquote Iva, così come alla trasformazione – nell’ambito della riforma Irpef – del bonus 80 euro in riduzione fiscale.
Certo, M5s e Lega continuano a negare la possibilità che si possano alzare le tasse per coprire le loro misure. Ma prima o poi bisognerà spiegare, anche a quel mezzo milione di docenti e Ata della scuola che oggi percepiscono gli 80 euro esentasse, pari a 960 euro netti l’anno, che per introdurre le novità del nuovo governo bisogna stringere la cinghia. Anche di chi non ha più buchi per farlo.
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