“Oicomai”, il passo d’addio di un preside

Riferirono i giornali del tempo (fine anni cinquanta) che agli allievi commossi e chini sul suo letto di morte, il grande latinista Concetto Marchesi, esalando l’ultimo respiro abbia mormorato: “Oicomai”. Oicomai: infrequente verbo greco (antico) che sta per “me ne vado” o, più propriamente “torno a casa” (oichia). La traduzione di questo verbo, in dialetto calabrese, è eccezionale, la più bella di tutte: “mi ricogghiu”. “Mi raccolgo”, come fa colui che si indirizza verso la propria abitazione dopo le azioni e la fatica del giorno e, per estensione, della vita. Oicomai: ho pensato di rispondere così, non senza rimpianto e commozione, a chi, insistentemente non meno che affettuosamente, mi ha chiesto di intervenire con un breve scritto, di qualsivoglia impianto o tenore, sullo splendido giornale degli stages che la redazione di questo Istituto con tanta dedizione e impegno ha elaborato e affrontato.

Perché – su questo, ultimamente, mi avviene molto spesso, di riflettere – sono passati più di sessant’anni dacché sono entrato, per così dire, nell’istituzione scolastica senza soluzione di continuità, da alunno, da studente universitario, da docente, da preside. Più di sessant’anni.

Diciamolo magari con i versi di una vecchia canzone degli anni ’70 (amo queste citazioni peregrine): “ormai si è fatto tardi, è già notte…” E dunque non mi resta, si parva licet componere magnis, che di raccogliermi. Non è francamente una cosa allegra. Ma tant’è. Una delle molte perifrasi adoperate nel Medio Evo per indicare il monaco (una delle figure più significative ed emblematiche dell’epoca), era “is qui luget”, ossia “colui che piange”.

Piange per i mali del mondo, per il dolore che lo abita e lo attraversa. Piange, soprattutto, per se stesso e di se stesso. Un poco, forse, come me che – volente o nolente – “Oicomai”. Non è che io abbia molta dimestichezza con le lacrime e il pianto. Epperò, sia pure a ciglio asciutto, mentre me ne vado, non mi dispiace di essere per tutti voi che restate, cui, a modo mio, ho dato, neglianni qualcosa del mio cuore, “is qui luget”.  

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